Il suono dei numeri

Tutta la verità su di me #10

Quando ho annunciato che dopo la maturità mi sarei iscritto a Lettere i miei genitori sono rimasti di sasso. 

"Ma come! Tu, che sei così bravo con i numeri, non ti iscrivi a Matematica?" 

Hanno detto proprio “bravo con i numeri”. In casa si è scatenato un putiferio: hanno convocato parenti, vicini di casa e persino il mio professore di matematica delle medie, ormai in pensione e mezzo rimbambito, per convincermi che essendo dotato dovevo assecondare il mio talento matematico anziché buttarmi su materie nelle quali avevo voti scarsi. Che poi non capivo perché non mi spingessero a seguire l'altro dei miei talenti e non caldeggiassero la mia iscrizione all’Accademia di Belle Arti; ma forse c’entrava il fatto che un conto è avere in casa un matematico, un conto un artista senza futuro, questa almeno era l’opinione dei miei nei confronti degli artisti. Solo zia Agata si è espressa a mio favore, dicendo che dovevano lasciarmi fare quello che preferivo e che la smettessero di scassare le scatole al prossimo. 

Durante il primo anno a Lettere ho superato brillantemente quattro esami, con due trenta e due trenta e lode, e i miei si erano ricreduti. Così, quando ho comunicato loro che avevo intenzione di cambiare facoltà e iscrivermi ad Architettura, ci sono rimasti malissimo e anche stavolta hanno tentato di farmi cambiare idea, ma senza impegnarsi più di tanto; zia Agata nel frattempo era morta e non poteva più rampognarli, ma presto avevano desistito ugualmente. 

I miei amici del Linus User Group, invece, hanno esclamato più o meno in coro: 

“Ma daaai! Architettura! Ma iscriviti a Informatica, invece!” 

Il fatto è che nel giro degli ultimi tre anni il mio interesse per la programmazione era diventato una vera passione e avevo sviluppato una distribuzione di Linux, diventando piuttosto conosciuto nell’ambiente. Dicevano che ero bravo, e avevo anche ricevuto un paio di offerte da società informatiche, ma avevo rifiutato perché preferivo terminare l’Università. Quale, ancora non lo sapevo per certo. Pareva, comunque, che qualunque cosa scegliessi di fare ci fosse un mucchio di gente che trovava qualcosa di ridire. 

Architettura l’avevo scelta perché mi piaceva l’idea di trasformare i numeri in edifici e di far confluire la mia passione per la matematica e il mio talento per il disegno nella costruzione di qualcosa di concreto e di imponente. E’ stato più o meno in quel periodo che ho iniziato a sognare i numeri. 

I miei sogni sono rumorosi. Lo sono sempre stati, da che io ricordi: sono corredati da musica, suoni, effetti sonori a volte così fragorosi da svegliarmi. Faccio sogni silenziosi solo quando di notte mi sale la febbre, è da quello che capisco che mi sta venendo un malanno. Insomma, mentre seguivo le lezioni di analisi matematica all’Università ho iniziato a sognare i numeri, e la cosa singolare è che ciascuno di essi emetteva un suono preciso. 

Nel sogno me li trovavo davanti da soli o raggruppati, erano numeri telefonici, o civici, o le serie impresse su un biglietto dell’autobus, cose di questo tipo. Quando li guardavo era come se si animassero e potevo sentirne il suono. Facevo questi sogni una o due volte la settimana, e in capo a un mese avevo imparato a distinguere i diversi suoni: l’1 faceva il rumore secco e tintinnante di un oggetto metallico percosso, il 2 era come un soffio di vento, il 3 aveva lo scricchiolio di una vecchia finestra di legno, il 4 aveva un rumore di onde marine, il 5 un suono elettrico distorto. Il 6 era gorgogliante, e all’inizio lo confondevo con il 4, ma poi ho imparato a distinguere le diverse timbriche. Il 7 era una nota squillante e ascendente, l’8 un sibilo, e il 9 era l’OM. 

Dopo alcuni mesi i numeri nei miei sogni a volte erano visibili, a volte no, ma in quest’ultimo caso ne avvertivo la presenza in base al suono: onde-tintinnio-sibilo, ad esempio, era il 418. 

Una notte ho sognato che ero diventato architetto e si stava costruendo un palazzo che avevo progettato; intorno a me c’erano il capocantiere, i geometri, i carpentieri, in mano avevo i piani di costruzione e si stava dando l’ultimo tocco a completamento dell’edificio. All’improvviso i numeri che erano imprigionati nel palazzo hanno iniziato a fare rumore. Migliaia di numeri che facevano parte di calcoli ed equazioni, il cui suono è cresciuto fino a diventare un boato che ha fatto esplodere e crollare il palazzo. 

Mi sono svegliato di colpo. Ero sudato e anche un po’ impaurito: forse la sera prima avevo mangiato troppo sushi? 

I sogni di questo genere sono continuati per un po’, poi quando ho lasciato la facoltà di Architettura si sono diradati fino a cessare del tutto. Non ho più sognato numeri rumorosi. Sono passati parecchi anni da allora, e per fortuna la cosa non si è più ripetuta. Se fosse continuata avrei iniziato a preoccuparmi e a dubitare della mia stabilità mentale. 

Pensavo proprio a questo una mattina della scorsa settimana, quando ha suonato la sveglia. 

“I numeri che suonano, che assurdità!” mi sono detto. 

Mi sono alzato dal letto e sono andato in cucina a prepararmi la colazione. Mentre scaldavo il caffè ho dato un’occhiata al giornale del giorno prima che non avevo ancora avuto il tempo di leggere. E’ stato allora che li ho visti. I numeri. 

Sulla pagina del listino di borsa. Ciascuno aveva un suo colore. Su tutte le pagine del giornale i numeri erano colorati. Ho guardato il calendario: anche là i numeri erano colorati. Sono andato nello studio e ho sfogliato delle riviste, aperto dei libri. I numeri erano colorati, tutti. Mentre il caffè fischiava sul fornello, ho ripescato da uno scaffale polveroso le tavole logaritmiche. Ho chiuso e riaperto gli occhi parecchie volte, ma quello che vedevo non cambiava: la pagina era una tavolozza con file e colonne di numeri variopinti, ciascuno con il suo colore. Ho preso un foglio di carta e ho scritto delle cifre a caso, con la matita. Una volta scritti i numeri diventavano rossi, verdi, azzurri, indaco, gialli. 

E’ da allora che vedo i numeri a colori, ma non lo sa nessuno. Oggi l’1 ha anche tintinnato.

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