Le istruzioni per l'uso

Tutta la verità su di me #16

Avevo traslocato già da un anno nella nuova casa quando arrivò Dalia. Era un sabato ventoso, con il cielo grigiastro, sebbene fosse l'inizio della primavera. Sentii un movimento per le scale e dei rumori che mi infastidirono, distogliendomi dal lavoro che stavo facendo. Mi alzai e andai alla porta di ingresso, la socchiusi e vidi che qualcuno stava portando mobili e scatoloni nell’appartamento accanto, che era sempre stato vuoto da quando mi ero trasferito. Sospirai, pensando alla fine della quiete di cui avevo goduto per lunghi mesi. 

Il trambusto durò tutto il giorno, e terminò a sera inoltrata. Ma ormai ero deconcentrato e senza il silenzio assoluto di cui ho bisogno per programmare avevo dovuto lasciare tutto a metà, e ne avevo approfittato per dedicarmi alle faccende casalinghe. Mentre ero intento ad aprire una bottiglia di sagrantino suonarono alla porta. Andai ad aprire. Era una ragazza che indossava una felpa e dei pantaloni di una paio di taglie troppo grandi per lei, ma aveva dei begli occhi chiari e nel complesso era carina. Doveva avere qualche anno meno di me. 

"Ciao, scusa, lo so che è tardi, ma sono arrivata adesso e ho ancora tutto inscatolato. Non avresti un adattatore schuko?" 

Posai a terra la bottiglia che avevo ancora in mano e, senza dire nulla, andai nel ripostiglio a prendere l’adattatore. Lei attese sulla soglia, e quando tornai mi sembrava leggermente imbarazzata. 

“Dalia Livraghi” mi disse, porgendomi la mano. 

“Alex. Dove dobbiamo mettere l’adattatore? Ti dò una mano.” 

La ragazza mi guardò perplessa, poi decise che poteva fidarsi e mi fece entrare in casa. Scavalcai una serie di scatoloni, borse e buste piene di abiti e la seguii nella stanza che nella pianta dell’appartamento doveva corrispondere al mio studio. C’erano solo due grandi scrivanie, e un paio di computer professionali ancora da collegare. 

“Lavori con questa roba?” le chiesi. Lei si passò una mano tra i capelli. 

“Sono game designer, in pratica mi occupo di creare giochi.” 

“Sì, so che cos’è.” 

Mi sembrò delusa di non avermi impressionato, o forse fu solo una mia idea. Guardai la parete e vidi che dalla presa telefonica uscivano dei cavi scoperti. 

“Non hai la connessione alla rete. Se vuoi, finché ti serve puoi usare il mio wifi.” 

Lei era incerta. 

“Sei gentile, ma sei sicuro? Guarda che io ho bisogno di banda...” 

“Ho la fibra ottica. Vieni da me, ti dò la password.” 

La condussi nel mio appartamento. Quando entrò nello studio dapprima si guardò intorno - il mio studio completamente blu colpisce sempre chi vi entra per la prima volta - poi si soffermò a guardare la mia scrivania con i tre monitor e la schermata ancora aperta del codice su cui stavo lavorando nel pomeriggio. Aveva un’espressione di meraviglia e le labbra socchiuse. Era evidente che non si era aspettata di trovare un vicino di casa che faceva un lavoro simile al suo. 

“Oh, cacchio” mormorò ammirata, poi si avvicinò allo schermo per curiosare cosa stavo facendo. 

“E’ un’app di grafica vettoriale” le spiegai, “la stiamo sviluppando come alternativa open al software a pagamento che produciamo per gli studi professionali.” 

Iniziammo così a chiacchierare di software, codici e programmi. Lei lavorava come free-lance per un’azienda che conoscevo e per cui avevo fatto consulenza alcuni anni prima; avevamo delle conoscenze in comune, e avevamo frequentato entrambi gli stessi user groups, anche se in periodi diversi. Parlando ci accorgemmo che si erano fatte le undici, così le proposi di cenare insieme. Avevo preparato diverse cose, con l’intenzione di surgelarle per la settimana a venire, così per una volta mi trovavo fornito. Lei accettò volentieri e la feci accomodare in cucina, mentre scaldavo nel microonde l’arrosto che avevo cucinato qualche ora prima. 

“Ce l’ho anch’io il microonde, ma non ho mai saputo usarlo” disse lei mentre versava il sagrantino nei bicchieri a calice, “sbaglio sempre la temperatura o i tempi”. 

“Beh, non è difficile. Sul libretto delle istruzioni è spiegato molto chiaramente.” 

Lei ridacchiò. “Non mi piace leggere le istruzioni, così continuo a sbagliare.” 

“Già, le istruzioni per l’uso non le legge mai nessuno.” 

Mangiammo l’arrosto, che a lei piacque molto, e chiacchierammo fino a tardi. Dalia era una compagnia piacevole e presto entrammo in confidenza. Lei aveva una relazione con una ragazza che era nell’ufficio stampa di una casa discografica e abitava in un’altra città. Ma era una storia difficile, e si erano lasciate e riprese parecchie volte. 

“Potrebbe essere tutto così semplice, e invece non lo è. Mi sembra che lei non capisca che ci sono cose che non sopporto, eppure non faccio che spiegarle che cosa mi dà fastidio. Alla fine io sono molto lineare: se mi tratti con rispetto e con dolcezza ti restituisco dolcezza e rispetto. Se mi tratti di merda, ti restituisco merda.” 

Pensai che in effetti era lineare e che ciò che diceva assomigliava alla mia teoria sulla simmetria nelle relazioni. Mentre lei parlava immaginavo un lungo segmento, a un estremo c’era quello che Dalia sapeva dare se era amata e rispettata, all’altro estremo c’era quello che Dalia poteva diventare se la sua compagna la trattava male, le mentiva o la trascurava. E tra un estremo e l’altro tanti comportamenti che davano luogo ad altri comportamenti analoghi. L’ideale sarebbe stato che la relazione si trovasse sempre dalla parte bella e luminosa della linea, ma sapevo che nella vita reale non è mai così. 

Con Dalia diventammo amici, quel genere di amici che non escono insieme ma che abitando nello stesso stabile si aiutano, scambiano due chiacchiere, a volte cenano insieme. Lei lavorava quasi sempre in casa mentre io uscivo presto la mattina e rincasavo all’ora di cena; la sera veniva a bussarmi quando sentiva dalla musica che ero rientrato, e capitava che rimanesse a mangiare con me. Lei non amava cucinare, e spesso era così assorta dal suo lavoro da dimenticare di fare la spesa, così quasi ogni giorno veniva a chiedermi se avevo del caffè, o della frutta, o dei crackers. Un paio di volte al mese partiva per raggiungere Meg, la sua ragazza, e restava da lei tre o quattro giorni; Meg non veniva da lei altrettanto spesso, e quando c’era lei Dalia non veniva a bussarmi per chiedere il caffè o altre cose. 

Un giorno rincasando la trovai sulle scale in preda a una crisi di pianto. Mi stupì, e mi preoccupò non poco, perché da come la conoscevo non era una persona fragile o piagnucolosa. Mi disse che aveva di nuovo litigato con Meg, ma che stavolta la cosa era più seria, e che adesso era davvero finita, e non sapeva più cosa fare. Non smetteva di piangere, così la portai a casa e le preparai un tè caldo, lasciando che sfogasse le lacrime accucciata sul mio divano. Mentre si calmava e beveva il tè buttai giù un elenco per lei. 

“Ecco” le dissi porgendole il foglio “questo è quello che puoi fare. Non dimenticare mai queste poche cose fondamentali.” 

Lei si asciugò gli occhi e prese la mia lista, che riportava scritto: 

1.Evita le asimmetrie. 

2. Fai più amore che sesso. 

3. Liberati dalle persone false. 

4. Un colore saturo non lascia spazio ad ambiguità interpretative. 

5. Concediti di mandare affanculo più spesso le persone e le cose moleste. 

6. Ascolta la musica. 

7. Ricorda che un non qualcosa può essere più reale di un qualcosa. 

8. Tieni presente che non tutto deve per forza avere un significato. 

9. Ricorda, infine, che l’amore è sempre la chiave di tutto. 

La piegò senza leggerla, la mise nella tasca dei jeans e si asciugò gli occhi. 

“Grazie, Alex. Dopo lo leggo con calma. Scusa, ma adesso voglio stare un po’ da sola.” 

Mi salutò e andò via. Nei giorni successivi mi disse che aveva finalmente rotto con Meg e la vidi più serena, anche se ancora non era tornata la Dalia allegra e ironica di sempre. Quando venne l’estate, però, mi annunciò festosamente che si erano riconciliate e che stavano per partire insieme, destinazione Caraibi, per una vacanza di un paio di mesi. 

“Beh, sono felice per te” le dissi. 

“E’ stata un decisione improvvisa” mi rispose, eccitata, “il mio treno parte tra poco, la raggiungo a casa sua per prendere l'aereo con lei domattina. Senti, Alex... mi faresti un piacere?” 

“Certo.” 

Mi indicò un paio di scatoloni che aveva messo fuori dalla porta. 

“Se vai all’isola ecologica questo sabato, puoi buttarmi quelle cose? Ho fatto piazza pulita di vecchie scartoffie e stracci, ma non ho tempo di andare io.” 

“Va bene. Anche questi jeans?” 

Indicai dei pantaloni di tessuto denim blu che sporgevano da uno degli scatoloni e sembravano nuovi. Lei rise. 

“Ah, sì, ho sbagliato a lavarli e sull’orlo si sono macchiati di candeggina. Butta tutto senza rancore.” 

Il sabato mattina caricai gli scatoloni sulla macchina, assieme alle bottiglie di plastica che avevo accumulato durante la settimana. Mentre sistemavo tutto sui sedili i jeans scivolarono fuori dallo scatolone strapieno e mi dovetti chinare a raccoglierli. In una tasca c’era un foglio. Pensando che forse Dalia aveva dimenticato nei jeans un appunto importante, lo presi e lo aprii. 

Era il mio elenco. Sbiadito e rovinato dal lavaggio, ma era senza dubbio l’elenco che le avevo dato il giorno in cui si era messa a piangere. Non lo aveva letto: era rimasto tutto quel tempo nella tasca dei jeans, poi era finito in lavatrice. Scossi la testa, e mi tornò in mente quello che le avevo detto il giorno in cui ci eravamo conosciuti: le istruzioni per l’uso non le legge mai nessuno. Ed era proprio così.


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