Da lontano

Tutta la verità su di me #22

Ero in pausa alla macchinetta del caffè quando si avvicinò Gualtiero. 

"Hai visto Andrea?" gli chiesi. “Ieri ho cercato tutta la sera di telefonargli ma aveva sempre il telefono occupato.” 

Lui selezionò il suo solito caffè - lungo, decaffeinato e con triplo zucchero - e alzò le spalle. 

“Stava di certo al telefono con la sua nuova fidanzata.” 

“Un'altra?” 

Andrea è il nostro collega del marketing, e a volte usciamo tutti e tre insieme. Lui cambia spesso fidanzata, ma le sue relazioni sono particolari perché completamente a distanza. Insomma, conosce delle ragazze in rete, e quasi sempre vivono in altri paesi o addirittura in altri continenti, col risultato che non si incontrano mai. Si limitano a chattare e farsi lunghe telefonate (Andrea parla cinque lingue), parlano d’amore, fanno insieme progetti, e dopo una ventina di giorni la storia finisce nel nulla dell’etere così come è iniziata. Io questa cosa non l’ho mai capita: a parte una volta in cui ebbi una sorta di storia con Nadia, una donna con cui chiacchieravo in rete, ho bisogno del contatto fisico, di guardare la persona in faccia, sentirne l’odore, vedere come muove le mani, come mangia e come cammina. 

“Sì, ma stavolta la cosa è seria, pare che si sia innamorato.” 

“Davvero?” 

“Chiedilo a lui.” 

Come evocato, Andrea era apparso nella saletta del caffè, col suo telefono in mano e gli auricolari che gli pendevano sulle spalle. Ci salutammo e gli chiesi di raccontarmi che cosa stava combinando con la nuova ragazza; in genere non sono curioso, ma sapevo che lui aveva sempre voglia di raccontare delle sue avventure e che gli piaceva farci confidenze anche molto intime. Sì, disse, stavolta era una cosa seria, con questa ragazza si sentivano da tre mesi e malgrado non si fossero ancora visti di persona le cose filavano talmente lisce che non riuscivano a stare senza messaggiarsi o telefonarsi per più di un paio d’ore di seguito. Gli chiesi se anche lei, come l’ultima delle sue conquiste, vivesse in Australia, ma quando mi disse dove abitava rimasi sorpreso. Era una città italiana, distante dalla nostra solo poche centinaia di chilometri. 

“E come mai non vi siete ancora incontrati?” 

Andrea mostrò un lieve imbarazzo. 

“Siamo in contatto da poco. Lasciamo passare altro tempo per conoscerci meglio.” 

“Altro tempo? Ma che cazzo, Andrea, tre mesi sono un’eternità!” 

Gualtiero ci ascoltava ridacchiando mentre sorbiva il caffè. Anche lui ha spesso storielle a distanza, ma le sue hanno l’unica, dichiarata finalità di fare sesso online, hanno la data di scadenza e non sostituiscono le relazioni con le ragazze con cui esce e che frequenta nel mondo concreto. 

“Lo so che è difficile spiegarlo, ma ci sono dei vantaggi in una storia in cui non ti incontri con l’altra persona. Non hai le rotture di scatole che ci sono nelle relazioni in cui devi vivere il quotidiano. Niente discussioni per il tubetto del dentifricio, niente shopping insieme, nessun reggiseno lasciato sulla poltrona del salotto, la sera esco con chi mi pare, mangio quello che voglio, la notte dormo nel letto in diagonale. Se vogliamo fare sesso ci facciamo una telefonata un po’ spinta, ciascuno dei due arriva al dunque, entrambi siamo soddisfatti e dopo non sono costretto a farle le coccole e rassicurare la sua autostima.” 

Trovavo la cosa scandalosamente cinica e scossi la testa. Ripensai a quella conversazione mentre tornavo a casa: mi ero preso mezza giornata di permesso appositamente per stare con la mia ragazza, e dentro di me ero contento e sollevato di avere una relazione normale in cui facevamo molte cose insieme incluso, non per ultimo, l’amore. Appena arrivato la chiamai e lei mi raggiunse. Avevamo in programma di passare il pomeriggio a letto, andare a cena al ristorante brasiliano, che a lei piaceva molto, e vedere insieme una serie televisiva che seguiva con passione e di cui proprio quella sera trasmettevano l’episodio finale della stagione. 

Eravamo a letto da una decina di minuti, impegnati in effusioni piuttosto piacevoli, quando suonò il telefono. Era la mia amica Silvia. Le risposi perché sapevo che non amava fare telefonate a meno che non ci fosse qualche problema. In quel caso, infatti, il problema c’era ed era anche gigantesco: si trattava di Ivan, l’uomo con cui aveva una relazione non proprio riposante, che minacciava il suicidio e le aveva inviato una serie di messaggi in cui diceva che stava per lanciarsi dal settimo piano del suo ufficio. Mi misi a sedere sul letto e cercai di aiutarla a risolvere la situazione. Silvia piangeva, in preda al panico; tentai di rassicurarla, le diedi delle indicazioni per mantenere il contatto con l’uomo, poi feci un giro di telefonate a conoscenti vari che avevano modo di inviare sul posto ambulanze, servizi sociali e vigili del fuoco. La mia ragazza seguiva le telefonate con aria apprensiva, e ogni tanto mi dava un suggerimento a cui non avevo pensato. Dopo oltre un’ora di allarme in cui avevo tentato l’impossibile per telefono, Silvia mi richiamò e mi disse con voce furibonda che era corsa all’ufficio di Ivan per scoprire che non aveva nessuna intenzione di buttarsi di sotto, visto che lo aveva trovato al bar di fronte che fumava tranquillamente in compagnia di una mora con le tette gigantesche. 

Con la mia ragazza riprendemmo dove ci eravamo interrotti e andammo avanti per un’altra decina di minuti. Poi il telefono suonò di nuovo. Guardai il display: era il mio capo. 

“Devo rispondere” le spiegai; lei annuì, con un’espressione di disappunto. 

“Nagel, porcaccia galera, è da stamattina che cerco la relazione sull’e-commerce, su quale schifo di cartella del cloud me l’hai messa?” 

Gli spiegai dove avevo caricato i file, poi lui mi trattenne a parlare di una serie di cose di lavoro che avrebbe benissimo potuto dirmi il giorno dopo. Dovetti ascoltarlo e rispondergli, e la conversazione si dilungò oltre il previsto. La mia ragazza nel frattempo sfogliava distrattamente un libro di Peter Cameron che avevo sul comodino. Finalmente la telefonata terminò e potei tornare a occuparmi di lei.

“Non puoi spegnere quel telefono o almeno silenziarlo?” mi chiese. 

“Non posso, col mio lavoro può chiamarmi un cliente in qualsiasi momento. Ho delle consegne importanti in sospeso e devo rispondere. Dai che mi faccio perdonare...” 

Lei sorrise e si lasciò abbracciare, e io come promesso mi feci perdonare. Mentre avvicinava la bocca per baciarmi in parti in cui sono particolarmente sensibile, il telefono squillò per la terza volta. Era passato un quarto d’ora dall’ultima telefonata; lei sbuffò. Era mia madre e dovetti rispondere di nuovo. 

“Scusa...” mormorai, mentre lei si tirava su e riprendeva in mano il libro con aria infastidita. Stavo per dire a mia madre che avevo da fare e che dovevamo risentirci più tardi, ma lei mi interruppe dicendo che era una cosa molto urgente e mi travolse come un fiume in piena con questioni che riguardavano la casa, la banca e il conto online sul quale non riusciva a fare dei bonifici. In sottofondo sentivo mio padre che imprecava tentando di effettuare un’operazione al computer. Mi misi pazientemente a spiegarle come doveva fare, e lei stette ad ascoltare le istruzioni; poi mi passò mio padre e io dovetti ripetere tutto da capo. Quest’ultima telefonata mi portò via un’altra buona mezz’ora; nel frattempo la mia ragazza si era alzata, era andata in bagno, poi aveva preparato il caffè e lo avevamo bevuto insieme sul letto mentre io continuavo a parlare al telefono. 

Quando riattaccai lei mi sorrise e non disse nulla. Guardammo entrambi il telefono, attendemmo alcuni istanti e ci gettammo di nuovo abbracciati nel letto in preda al desiderio. Fu allora che il telefono riprese a squillare, in modo sonoro e impietoso. Prima ancora che io potessi vedere chi era, lei con uno scatto si separò da me e si alzò, gridando: 

“E basta! Non se ne può più, Alex!” 

Iniziò a vestirsi velocemente e con furia, mentre io cercavo di calmarla. 

“Ma non è colpa mia se continuano a chiamare... torna qui. Che fai?” 

“Me ne vado! Mi sono rotta!” 

Le corsi dietro ma non volle sentire ragioni; una volta che fu vestita aprì la porta di casa e se ne andò, e io non potei seguirla per le scale perché ero completamente nudo. Il telefono nel frattempo aveva smesso di squillare; andai a vedere la chiamata persa, e stavolta era una persona a cui potevo tranquillamente evitare di rispondere. Sospirai e mi misi a sedere sul letto, che ancora emanava l’odore della mia ragazza dalle lenzuola. Feci una doccia, mi vestii e misi su un disco dei Willard Grant Conspiracy. 

Più tardi telefonai alla mia ragazza. 

“Sei ancora arrabbiata?” 

“Mh-mh”. 

“Mi è dispiaciuto non poter fare l’amore con te.” 

“Mh. Anche a me. Però che palle quel telefono...” 

Seguitammo a parlare e presto il tono della conversazione assunse toni teneri, poi leggermente spinti. Quasi senza accorgercene entrammo nel pieno di una telefonata erotica con parole e frasi sempre più ardite e sfacciate in un crescendo ricco di pathos. Raggiungemmo l’apice quasi in simultanea, cosa che non ci era mai capitata prima. Poi rimanemmo ancora un po’ a parlare e ci salutammo dandoci appuntamento al giorno dopo. 

Si era ormai fatta ora di cena; andai in cucina e mi preparai del chili con tacos e salsa piccante, che divorai accompagnandolo con un paio di birre messicane. Il ristorante brasiliano non mi attirava molto, ogni volta che andavamo finiva che mangiavo troppo e la mattina dopo mi alzavo con il mal di stomaco, ma la mia ragazza ne andava pazza e cercavo sempre di accontentarla. Dopo cena passai un po’ di tempo a giocare alla playstation, vidi una serie TV - non quella che piaceva alla mia ragazza, che a me non diceva granché - lessi un paio di fumetti e poi mi preparai per dormire. 

Nel letto mi sistemai con tutti e quattro i cuscini sotto la testa. Stavo per spegnere la luce, quando ci ripensai. Presi il telefono e mandai un messaggio ad Andrea: 

“Mi sa che alla fine hai capito tutto!” 

Mi misi in diagonale e allungai beatamente le gambe, sprofondando la testa nei cuscini.

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