Batti il tempo!

Tutta la verità su di me #14

Leggo su un sito specializzato: Le neurodiversità e le neurotipicità possono avere una base ereditaria o di familiarità, ossia la tendenza a presentarsi in diversi membri della stessa famiglia

L'unica persona della famiglia che abbia le mie stesse caratteristiche è il mio nonno materno Arduino. Lui è sempre stato, diciamo, "particolare". Secondo mio padre è un vecchio bizzarro e capriccioso, ma fra loro non c’è mai stata una grande simpatia. Mia madre ogni volta che si parla di lui si limita a emettere un sospiro e scuotere la testa. Lei è la seconda di due figlie che hanno avuto vita difficile con quel padre ingombrante e pieno di manie, e che hanno diradato i rapporti con lui fin da quando, rimasto vedovo, ha allacciato una relazione piuttosto chiacchierata con la sua segretaria di 30 anni più giovane. 

Quando ero piccolo lo frequentavamo di rado, un po’ perché abita in una città del nord, un po’ per la presenza scomoda della giovane amante, ma soprattutto per il suo carattere. Andavamo a trovarlo di rado, per qualche festa comandata, e nemmeno tutti gli anni. Lui non si è mai mosso per venire a trovare noi, e ha sempre disprezzato gli inviti che mio padre gli rivolgeva. Fino ai 15 anni l’ho visto molto poco, e le visite non duravano mai abbastanza da farmi entrare in confidenza con lui. 

Quell’anno, però, le cose cambiarono. 

Andammo da lui in occasione delle vacanze di natale, con l’intenzione di fermarci un po’ più a lungo delle altre volte perché mia madre doveva sistemare alcune cose relative a un vecchio casale lasciatole in eredità da mia nonna. Erano trascorsi molti anni dalla sua morte, ma mia madre aveva sempre rimandato. Adesso però si era decisa ad affrontare quella faccenda, forse perché da qualche settimana l’amante di mio nonno aveva fatto i bagagli e se n’era andata, affermando che otto anni di sopportazione erano più che sufficienti. Nonno Arduino non sembrava per nulla scosso da quell’abbandono. Ci accolse, come sempre, come se fosse infastidito e sorpreso da quella visita che in realtà era stata annunciata da almeno un mese. Mio padre gli andò incontro con il suo solito sorriso diplomatico. 

“Salve, papà, come stai?” 

Lui gli tese la mano allungando il braccio, per evitare qualsiasi altro contatto corporeo. 

“Ciao, Nagel. Come vuoi che stia? Come un porco in altalena. Con l’artrite alle mani e le giunture che mi fanno impazzire.” 

Mio padre corrucciò appena il viso. Nonno lo chiamava sempre per cognome, e non rinunciava mai a usare quelle espressioni colorite che facevano alzare gli occhi al cielo a mia madre. Mi accostai a lui tendendo la mano, perché sapevo che non gli piaceva essere abbracciato. Invece mi fece cenno di avvicinarmi. 

“Allora, giovane Alex, dai un bacio a questo povero vecchio.” 

Mentre lo baciavo sulla guancia mi sussurrò all’orecchio, ridacchiando: 

“Non capisco perché deve chiamarmi papà. Mica sono suo padre, giusto?” 

Ci sorridemmo con complicità. All’epoca nonno Arduino non aveva proprio nulla del “povero vecchio”, avendo da poco passato i 65 anni. E non era neppure fuori forma: aveva tutti i capelli, seppure ingrigiti, e un fisico asciutto e ancora elastico che esercitava nuotando quasi ogni giorno. Con gli anni, però, le sue stranezze andavano aumentando. Da sempre misantropo, detestava il contatto fisico e le compagnie chiassose e non aveva mai voluto in casa il televisore; aveva un attaccamento maniacale per la sua collezione di dischi e per le piante della sua serra, in gran parte fiori esotici e rari. 

Nel corso del tempo aveva sviluppato un’avversione per alcune cose, tra cui l’andare al ristorante: sosteneva che gli ripugnava l’idea di mangiare nei piatti in cui avevano mangiato centinaia di estranei. I suoi amici del circolo di bridge avevano smesso di invitarlo a cena fuori dopo la terza volta in cui si era portato i piatti da casa, con il dubbio che la sua nuova mania altro non fosse che un modo di evitare le occasioni sociali, d’altronde già molto rare. Per il resto continuava a coltivare gli innocenti rituali che lo contraddistinguevano, come il bicchierino di porto bianco tutti i giorni alle cinque, le calze sempre rosse, che indossava con qualunque abbigliamento e in qualunque occasione, i pasti consumati nello studio certi giorni del mese. 

Quell’anno, come ho detto, avemmo modo di trascorrere per la prima volta qualche giorno insieme, e fu allora che mi insegnò a vedere la musica. 

“Vieni qui, giovane Alex. Voglio mostrarti qualcosa” mi disse, introducendomi nel suo studio. Non ero mai entrato in quella stanza, che chiudeva sempre a chiave e che era interdetta alle sue stesse figlie. Accese le luci e davanti a me si parò uno spettacolo meraviglioso. La stanza era molto ampia, come un salone triplo, e su tutte le pareti c’erano più dischi di quanti io ne avessi mai visti tutti insieme. Mi lasciai sfuggire un “ooooh” stupito mentre guardavo gli scaffali alti fino al soffitto ricolmi di vinili. 

“Ti sto mostrando questo per un motivo preciso. Sappi che non faccio entrare mai nessuno qui dentro, salvo un paio di vecchi pazzi che si ostinano a essermi amici da quasi quarant’anni.” 

Mi mostrò una poltrona Frau nera e mi fece accomodare, mentre non smettevo di guardarmi intorno. 

“Tua madre mi ha detto che hai uno strano rapporto con i colori. Che secondo te hanno una forma, una personalità, e cose del genere.” 

Mi scrutò con un’espressione che non riuscii a decifrare. Era vero, mia madre mi considerava strano, e forse in effetti facevo delle cose strane, di cui non amavo parlare. Ma alle domande dirette non sapevo mentire, così risposi. 

“Sì, è così. Secondo me i colori hanno vibrazioni diverse e significati diversi. Credo che abbiano anche un suono diverso. Voglio dire, a volte mi capita di pensare agli abbinamenti di colori come armonie di suoni. E secondo me trovo sgradevoli alcuni colori perché non mi piace il loro suono.” 

Mi aspettavo una reazione di scherno, invece lui mi guardò soddisfatto. 

“Molto bene, come immaginavo... e hai mai avuto sensazioni di questo tipo per i suoni? Hai mai visto la musica?” 

Scossi la testa. 

“Non ci hai mai neanche provato?” insistette. 

Feci di nuovo cenno di no. Lui mi fece alzare, e pensai che volesse sbattermi fuori, invece mi prese per un braccio e mi portò su un divano basso che stava al centro della stanza. Sprofondai nei cuscini di piume e mi accorsi che attorno a me c’erano diversi diffusori acustici che convergevano sulla mia posizione. Poi andò con passo sicuro verso uno scaffale, prese un disco e lo mise sul piatto dello stereo. Dalle casse iniziò a diffondersi la musica di Songs of innocence di David Axelrod. Lui si sedette accanto a me. 

“Chiudi gli occhi” mi disse “e fai spazio solo alla musica.” 

Feci come diceva. Il suono che usciva pulito dalle casse mi avvolgeva, entrava nelle orecchie, arrivava alle mie cellule cerebrali e poi si riverberava attraverso i nervi in tutto il corpo, dall’alto in basso, dagli organi interni alla pelle. 

“Ora senti l’organo, Alex. Guardalo. Lascia che i tuoi occhi chiusi vedano le note.” 

Mi sforzai di fare come diceva mio nonno, ma all’inizio non accadde nulla. Poi, quando attaccò il secondo brano, ebbi una sensazione strana. Mi sembrava che le note disegnassero strane volute simili ad arabeschi. Dapprima fu appena uno scintillio intermittente, poi iniziai a distinguere i diversi strumenti. Avevano forme diverse. Colori diversi. Disegnavano pattern ora ondulati, ora geometrici. 

“Nonno, la vedo adesso. La vedo!” dissi mentre inseguivo ad occhi chiusi i motivi geometrici del crescendo. “C’è una cascata di volute che mi sta cadendo addosso!” 

Sentii la voce calda di mio nonno che mi diceva: “Sì, sì, sì. Sapevo che potevi farlo.” 

Anche la sua voce aveva una forma in quel momento. Ascoltammo in silenzio tutto il resto del disco. I miei occhi vedevano linee, archi e geometrie che si espandevano, restringevano e fluidificavano. Non avevo mai provato nulla del genere e mi sembrava di essere stato catapultato in un un universo parallelo in cui tutti i comuni rapporti di significato erano completamente stravolti. Quando il disco terminò e aprimmo gli occhi mi ci volle un po’ per riabituarmi alla luce. Volevo raccontare al nonno la mia esperienza e cominciai a parlare, pieno di entusiasmo, ma lui mi interruppe. 

“Quali strumenti suoni?” 

“Nessuno.”

“Come sarebbe, nessuno??” 

“Non sono portato” mi giustificai, “a scuola alle elementari mi dicevano sempre che sono stonato, e...” 

Lui ebbe un moto di impazienza. 

“Ma chi ti ha messo in testa queste imbecillità? Tu non puoi essere stonato! E i tuoi genitori che non ti hanno fatto studiare uno strumento sono più asini di quelle tue maestre delle elementari! Tu sai che io ho suonato la batteria per molti anni?” 

Non lo sapevo, e glielo dissi. 

“Non sapevi che sono stato il batterista di un’orchestra jazz, e abbiamo fatto molti concerti e tournée all’estero?” 

Senza aspettare la risposta rimise da capo il disco e continuò: 

“Mi hanno detto che sei una specie di genio dei numeri, giovane Alex. Tu sai che ci sono dei giorni in cui mangio qui nello studio anziché nella sala da pranzo.” 

Annuii. 

“Quei giorni del mese sono il 2, il 3, il 5, il 7, l’11, il 13 e così via... ti dice nulla questo?” 

“Sono numeri primi” risposi prontamente. 

Gli vidi un ampio sorriso sulla faccia rugosa. 

“Anch’io ho sempre avuto una grande passione per la matematica. Non ho potuto coltivarla iscrivendomi all’università, per motivi che forse ti dirò, o forse no. Ma ho sempre amato la musica, che è l’altra faccia della matematica. Gli intervalli, il ciclo delle quinte, i valori delle note. E il ritmo.” 

Prese due bacchette e riprodusse il ritmo del disco battendo sul bordo di un tavolo. 

“Senti le misure.” 

Prestai l’orecchio e dopo un po’ iniziai a distinguere e a capire le diverse suddivisioni del tempo. Nonno Arduino mi porse due bacchette. 

“Ora prova. Fai come faccio io.” 

Lo seguii nel ritmo, inizialmente titubante, poi sempre più sicuro. Mentre la musica aumentava di intensità, il tempo dato da mio nonno diventava sempre più composito. 

“Avanti, Alex! Batti il tempo!” mi gridava, incitandomi a incalzare. Io, che prima di quel momento non avevo mai preso in mano le bacchette, sentivo istintivamente quale era il ritmo che dovevo battere, e i colpi emessi erano perfette misure matematiche senza alcuna sbavatura, in armonia con il flusso di suoni dell’orchestra che eseguiva il brano. Avevo visto la musica, e adesso scoprivo i rapporti matematici nel ritmo. Mi trovavo in una stanza piena di dischi, ma quello che guardavo in quel momento era la forma dei suoni che emettevo colpendo il bordo del tavolo con le bacchette. Vedevo il ritmo che stavo suonando. Alzai gli occhi a cercare quelli di mio nonno, che annuì sorridendo, a significare che aveva capito e che sapeva che stavo vedendo il ritmo. Tornai a guardare le forme che uscivano dalle mie mani, mentre nonno Arduino non smetteva di incitarmi: 

“Batti il tempo, Alex! Batti il tempo!” 

Battevo con tutte le mie forze, e vedevo la forma del suono. E desiderai che quel brano di Axelrod non avesse mai fine. 

Il brano finì, ma il nonno rimise su il disco ancora, e ancora e ancora, e continuammo a battere il tempo finché non ci fecero male le mani.

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