Le figlie del giostraio

Tutta la verità su di me #6

Il giorno in cui arrivarono a scuola le tre bambine nuove nessuno di noi si accorse che erano zingare. Eravamo nel refettorio, e io notai nel tavolo a fianco al mio quelle tre bambine che non avevo mai visto prima: indossavano lunghe gonne a fiori a colori sgargianti, con ampie balze sull'orlo, e corpetti plissettati di un tessuto lucido che sembrava raso di seta. Era il martedì grasso. Molti di noi erano in maschera e io ero vestito da Zorro, con tanto di baffi disegnati con la matita kajal; fu per questo che scambiammo i loro abiti per travestimenti carnevaleschi. Alla fine del pranzo, che era tutto un vociare, un piangere e un gettarsi addosso eccitati le stelle filanti (le bidelle ci avevano vietato severamente i coriandoli, che erano più difficili da spazzare via) rientrammo nelle aule. 

Eravamo un centinaio di bambini a frequentare il doposcuola, e ci mettevano in alcune aule al pianoterra senza differenziarci per età. Le maestre del doposcuola si assicuravano che svolgessimo i compiti che la maestra del mattino ci aveva assegnato, e dopo ci permettevano di giocare. Ero là perché i miei genitori lavoravano e non potevano lasciarmi a casa da solo; mio padre me lo aveva spiegato, all’inizio dell’anno scolastico. Io avevo sette anni e avevo annuito, ma non capivo che cosa ci fosse di tanto importante in quel lavoro da impedirmi di pranzare a casa e passare il pomeriggio nella mia stanza, come avevo fatto l’anno prima. 

Le tre bambine nuove erano nella mia classe. La maestra le fece alzare, una alla volta, e chiese loro di presentarsi dicendo il nome e l’età. Si chiamavano Carmelina, Silvana e Giovanna. 

Carmelina era la più grande, aveva già 12 anni ed era più alta di tutti noi; portava lunghe trecce nere, e al collo una catena d’oro a grosse maglie. Malgrado fosse grande d’età leggeva e scriveva come una bambina di seconda; alle domande della maestra rispose che lei e le sue sorelle cambiavano spesso scuola e frequentavano le lezioni quando potevano, perché i genitori facevano i giostrai e si spostavano frequentemente da un posto all’altro. 

Silvana aveva otto anni e un viso con la carnagione scura e gli occhi un po’ obliqui; somigliava molto a Giovanna, che era di un anno più grande e aveva i capelli di uno strano colore tra il rosso e l’arancio acceso. Tutte e tre sorridevano sempre, e anche se erano molto legate tra loro acconsentivano volentieri a chiacchierare e giocare con noi; parlavano un italiano strano, corretto e senza inflessioni, e per tutto il tempo che rimasero in classe con me non le udii mai usare un’altra lingua. Io non avevo chiaro cosa fosse un giostraio e sulle prime pensai che fosse un fabbricante di giostre. I giorni successivi mi resi conto che gli abiti delle mie nuove compagne non erano maschere di carnevale, perché il carnevale era bell’e finito, e fu allora che capii che erano zingare. 

A casa lo dissi ai miei genitori. Mia madre, che stava mettendomi nel piatto le patate arrostite, sembrò irrigidirsi, ma non disse nulla. Mio padre, che era assorto nella visione del notiziario della sera, si girò verso di me e mi fece delle domande su chi erano e perché erano nella nostra scuola. Io non avevo da dire molto di più di quello che loro avevano raccontato il primo giorno; quello che sapevo era che ridevano quando sentivano una storiella divertente, disegnavano con i pastelli a cera come facevo io e il loro gioco preferito era il mosaico con i chiodi colorati. Dopo cena andammo nel salotto e lui mi spiegò chi erano i Sinti, che cos’era un giostraio e da dove venivano quelle popolazioni. Io ascoltavo con attenzione, anche se non capivo proprio tutto; mia madre era in silenzio e ascoltava anche lei, con aria apprensiva, ma mio padre non sembrava preoccupato, anzi, sorrideva lievemente mentre parlava tenendo in mano la pipa accesa. 

Nelle settimane successive mi capitò di sedermi al banco con le bambine nuove, ma non parlavamo di loro e della loro vita nella famiglia di giostrai. Con Giovanna, però, ci fu un episodio che ci fece diventare quasi amici. Lei aveva difficoltà con le lettere dell’alfabeto, e perciò non riusciva a leggere e scrivere bene le parole. Scambiava la p con la d, la m con la n, insomma faceva confusione tra lettere simili. Io ero seduto vicino a lei che tentava di tracciare le lettere sulla pagina del quaderno, e mi accorsi del suo problema. 

"Guarda, è semplice" le dissi, “P è un naso di cane.” 

Mi guardò senza capire. “Un naso di cane?” 

“Sì, un naso!” 

Tracciai il disegno di una P maiuscola e con rapidi tratti di matita trasformai l’occhiello in un naso e l’asta nel collo del cane. Giovanna aprì la bocca in un sorriso, io seguitai a disegnare: la d che diventava una croma, la q un omino impiccato alla riga, la b un coniglio, la M maiuscola erano due montagne gemelle, la N un’altalena. Dalla mia matita uscivano figure rozze e approssimative che si animavano e si rincorrevano sul foglio, ogni lettera era un piccolo universo diverso dagli altri. Giovanna applaudì, contenta. La maestra se ne accorse. 

“Che succede laggiù?” 

“La P è un naso di cane!” disse gioiosamente. “Lui sta disegnando le lettere, e la P è un naso!” 

“Che storia è questa? Alex, smettila di distrarre Giovanna e lasciale fare i suoi compiti!” 

Ci ricomponemmo entrambi e Giovanna mi lanciò uno sguardo complice. Dopo quel giorno non avemmo più occasione di sederci vicino. Ma quando l’anno finì e ci salutammo per le vacanze estive, Giovanna aveva imparato a leggere e scrivere senza confondere più le lettere. 

L’anno dopo i miei genitori mi tolsero dal doposcuola perché zia Agata era venuta ad abitare nell’appartamento di fronte e poteva prendersi cura di me mentre loro lavoravano. Carmelina, Silvana e Giovanna se n’erano andate, e ora i genitori facevano girare le giostre in chissà quale città. 

Negli anni mi è capitato di pensare a Giovanna e a quel pomeriggio in cui le disegnai le lettere dell’alfabeto. Mi sono chiesto che fine poteva aver fatto; e mi piaceva pensare che si era sposata, aveva avuto un figlio e gli insegnava a leggere dicendo, guarda, questa è la P ed è un naso di cane.

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