Facce

Tutta la verità su di me #5

Quando nel mio lavoro mi imbatto in sistemi di riconoscimento facciale provo un senso di ilarità. Perché un'app con un sistema del genere dovrebbero inventarla per me, che i visi non li ho mai saputi riconoscere. Sul serio, non so distinguere i visi delle persone, neppure di quelle che conosco e frequento da anni, e a volte la cosa mi capita anche con i miei familiari. 

A pensarci bene questa cosa l’ho sempre avuta. Zia Agata, che quando avevo sei anni mi portava spesso con sé nelle sue lunghe passeggiate, aveva lo stesso problema. Spesso lei mi chiedeva di venirle in soccorso: "Alex, qual era il cameriere che ci ha servito il tè? Quello dietro il bancone o quello che passa ora vicino alla pianta?" Stringeva gli occhi a fessura e io guardavo nella direzione che mi indicava, ma non ero in grado di aiutarla: per me erano tutti uguali, volti anonimi in corpi che indossavano la stessa uniforme bicolore. Con le commesse dei negozi ce la cavavamo meglio, perché potevamo fare affidamento su un diverso taglio o colore di capelli. Erano, invece, gli incontri con i conoscenti ad assumere toni drammatici; zia Agata si lasciava avvicinare da quelli che sembravano estranei e mostrava una lieve sorpresa come se fosse soprappensiero, ma io sapevo che aveva notato la manovra a distanza e prendeva tempo tentando di capire chi fossero quei gentiluomini e quelle gentildonne che la salutavano con tanto affetto. Il più delle volte dopo le prime battute avveniva il riconoscimento, grazie al timbro della voce, un accenno a conoscenti comuni o eventi passati, un tic o un modo di gesticolare. Ma non di rado la zia mi confessò che non ricordava assolutamente chi fosse quella persona con cui aveva amabilmente conversato per mezz’ora. 

“Io e te non siamo proprio fisionomisti!” mi diceva allegramente ogni volta che ci rendevamo conto di un nostro clamoroso errore nell’identificare un volto. 

Così sono cresciuto pensando di non essere fisionomista e la cosa è finita lì. Non ci ho fatto neanche molto caso finché non ho iniziato a fare un lavoro che mi portava a conoscere un gran numero di persone, con le quali non avevo una frequentazione continuativa. Perché finché vedo una persona più o meno tutti i giorni non ho grossi problemi, voglio dire, so chi è. Ma se la rivedo dopo un intervallo di tempo di qualche settimana, per me è come se non ci fossimo mai incontrati. Vuoto assoluto. Dopo i primi due meeting di settore con rappresentanti internazionali e il mio capo che mi sbraitava, “Cazzo Nagel! Quello era il direttore di Google Italia, sei rincoglionito o che cosa?” “Nagel, ma porco di quel ***, ti avevo detto di andare subito incontro alla delegazione di Cisco e te la fai passare sotto al naso!”, ho pensato che avrei dovuto provvedere a elaborare delle strategie. 

Da principio ho provato ad allenarmi con le foto, una specie di memory game per intenderci, e ho passato ore a cercare di abbinare il nome alla faccia. Macché, non funzionava. Allora ho cercato soluzioni alternative. I meeting con i badge sono i più facili, il badge lo portano quasi tutti, mi basta adocchiare il nome ed è fatta. Ma i meeting informali e altri incontri di lavoro sono complicati. Così quando mi presentavano un cliente o un fornitore mi annotavo mentalmente le sue caratteristiche - la voce, i capelli, la postura, i segni caratteristici, il vestiario, se aveva orecchini, barba, occhiali. 

Il problema si creava quando il mio interlocutore si presentava con un nuovo look - barba tagliata, capelli di un colore diverso, un nuovo paio di occhiali. Allora seguivo lo stratagemma di zia Agata: lo salutavo con una cauta ma affabile cordialità, lo facevo parlare finché dalla conversazione riuscivo a collocarlo in un contesto e a dargli un nome e un’identità. A volte, però, tutte le mie acrobazie non funzionavano e mi ritrovavo nella condizione frustrante di trovarmi a parlare con qualcuno che mostrava di conoscermi da tempo e che per me era un completo estraneo. 

Quando sono andato a lavorare per la SoftWater Inc. ho conosciuto Gualtiero, lavoravamo allo stesso progetto e abbiamo finito con lo stringere amicizia. Il giorno in cui c’era una riunione importante gli ho rivelato il mio problema chiedendogli se poteva darmi una mano. 

“Ah, capito, soffri di prosopagnosia” mi ha detto. 

“Prosoche?” 

“Pro-so-pa-gno-sia. E’ una condizione neurologica particolare, ti impedisce di riconoscere i volti, nelle forme più gravi non riconosci manco i tuoi genitori.” 

Credo di essere rimasto imbambolato a guardarlo. Gualtiero è uno forte, legge molto e si interessa di psicologia, di neuroscienze e di mille altre cose. 

“Va, tranquillo, sto vicino a te e ti dico i nomi di chi arriva.” 

Durante una pausa dalla riunione (la prima in cui, grazie a Gualtiero, non ho fatto figure di merda) ci siamo ritrovati alla macchina del caffè a parlare della mia prosopagnosia. 

“Ne soffre un mio cugino di Trento” mi ha spiegato “pare che sia una cosa ereditaria, nella sua famiglia sono in parecchi. Pensa quando si ritrovano a un pranzo o un funerale e nessuno sa chi cazzo siano gli altri.” 

Abbiamo riso insieme, ero sollevato e nello stesso tempo rinfrancato dal fatto di non essere solo, e di non avere come unica spiegazione che “non ero fisionomista”. 

“Immagino che ti siano capitati episodi incresciosi, forse addirittura hai perso delle amicizie...” 

“Una specie.” 

Abbiamo bevuto il caffè il silenzio. Io avevo avuto un flash ma non gliel’ho detto. Avevo vent’anni, per alcuni mesi feci coppia con Caterina Schaubb, una mia compagna di università. Frequentavamo le stesse lezioni, studiavamo insieme, ci vedevamo il pomeriggio nella sua stanza di studentessa fuorisede. Quando ci ritrovammo dopo le vacanze mi capitò quella cosa, uscendo me la ritrovai sotto il portone di casa che voleva farmi una sorpresa, non la riconobbi e passai oltre. Lei piantò un casino: Alex, sei proprio uno stronzo, mi disse. Quando mi lasciò, alcune settimane dopo, tirò fuori con livore quell’episodio. 

Insomma, il giorno della riunione sono tornato a casa stanco ed euforico. Ho aperto il tablet e mi sono collegato con il mio profilo. Non vedevo Caterina da più di dieci anni, ma ho trovato il suo profilo - non è difficile, non sono molte le Caterine Schaubb, e poi quella foto del profilo: era lei, non c'erano dubbi. Le ho inviato un messaggio: 

Caterina Schaubb, ti ricordi di me? Sono Alex Nagel. Dicevi che ero uno stronzo perché facevo finta di non riconoscerti. Invece ho una condizione che si chiama prosopagnosia. 

Il giorno dopo ho ricevuto una risposta. 

Ciao, Alex Nagel. Mi dispiace che tu sia malato di quella roba là, ma devi aver sbagliato persona perché io non so assolutamente chi tu sia.

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