Più casti dei nonni:
il sesso ha stufato i millennial?

Nell'era di Internet, del porno illimitato
e della fine dei tabù i giovani hanno meno rapporti
dei coetanei degli anni Venti

Sono cresciuti nell'era di Sex and the City e Jersey Shore, del sesso occasionale comunemente accettato; oggi, ottengono appuntamenti su Tinder. Eppure, i millennial non fanno sesso. O almeno, ne fanno meno dei loro genitori, e uno su otto resta vergine almeno fino ai 26 anni. Secondo uno studio pubblicato dalla rivista specializzata Archives of Sexual Behavior, per trovare una generazione così casta bisogna tornare ai giovani degli anni Venti.

In Italia, dove mancano ricerche specifiche sulle abitudini sessuali dei millennial, la più recente indagine sul tema, svolta da Doxa, dimostra che il sesso è sempre meno di moda. Nei primi 15 anni del XXI secolo, la frequenza dei rapporti sessuali nel nostro Paese è diminuita del 10%. Il calo ha interessato tutte le fasce di età, inclusi i giovani.

Provare a studiare le abitudini sessuali dei millennial significa scontrarsi con una fondamentale difficoltà: la mancanza di una definizione univoca della categoria. Il Pew Research Center, think thank americano che si occupa di temi sociali, considera per esempio i nati dal 1981 al 1997. Gli storici William Strauss e Neil Howe, padri di una teoria che interpreta la storia americana come un susseguirsi ciclico di generazioni, prendono come riferimento la fascia 1982-2004. Ancora, la psicologa Jean Twenge, della San Diego University, indica il periodo 1980-1999.

Non solo: sotto l'etichetta "millennial" rientrano i nati in un periodo di tempo ampio. Fanno dunque parte del gruppo tanto i nativi digitali quanto chi era bambino negli anni '80.

La mancanza di una definizione condivisa da tutti non impedisce comunque di ricavare un quadro generale della categoria dei millennial. E i risultati degli studi in materia di sesso, come sintetizza l'istituto di ricerca Ipsos Mori, evidenziano «una divergenza tra due estremi»: «Più millennial non fanno sesso, ma coloro che lo fanno hanno maggiori probabilità di avere molti partner o di avere cominciato prima».

Negli Stati Uniti, per esempio, i dati del National Health and Nutrition Examination Survey (Nhanes) dimostrano che i millennial perdono in media la verginità a 17 anni, contro i 19 della Generazione X che li ha preceduti (i nati fra i primi anni '60 e i primi anni '80). Nel 2013, il 16% dei millennial americani dichiarava di avere avuto tre o più partner nei dodici mesi precedenti, contro il 13% registrato dalla Generazione X nel 2000. Un dato in linea con quello registrato nel Regno Unito dal National Survey of Sexual Attitudes and Lifestyles, condotto tra il 2010 e il 2012 dai ricercatori della University College London, della London School of Hygiene & Tropical Medicine e del NatCen Social Research: il 14% dei millennial aveva avuto tre o più partner nell'anno precedente, contro il 12% della generazione X.


D'altro canto, secondo un'analisi Ipsos Mori dei dati Nhanes, il 32% dei millennial, nel 2014, dichiarava di non avere rapporti da almeno quattro settimane, contro il 19% della Generazione X nel 2000. Jean Twenge, partendo dai dati del General Social Survey, svolto ogni anno negli Stati Uniti dal National Opinion Research Center dell'Università di Chicago, ha scoperto che i millennial, se non iniziano presto ad avere rapporti, hanno elevate probabilità di restare vergini più a lungo. Fra loro, quelli che non avevano avuto alcun partner dai 18 ai 24 anni risultavano essere il 15% del totale, contro il 6% della Generazione X alla stessa età.

«Se un ragazzo di 20-22 anni non ha mai avuto rapporti, può entrare in forte crisi quando è chiamato a mettersi in gioco in una relazione», spiega Roberta Rossi, presidente della Federazione italiana sessuologia scientifica e dell'Istituto di sessuologia clinica di Roma. «Sono bloccati dalla paura che emerga la loro mancanza di esperienza».

«I millennial sono molto più informati delle generazioni precedenti», aggiunge Paola Zucchi, psicologa clinica e sessuologa. «Spesso, però, la facilità di accesso alla sessualità non si accompagna a una maggiore consapevolezza emotiva. I timori e le ansie sono sempre gli stessi: la prima volta, il sangue, la prestazione, la pretesa degli orgasmi simultanei, la paura di non raggiungere l'orgasmo o di non riuscire a mantenere l'erezione».

Generazione "single per scelta"

Sempre più restii a metter su famiglia e sempre più single convinti. La precarizzazione del lavoro, l’indipendenza economica sempre più difficile da raggiungere e il progressivo spostarsi in avanti dell’inizio dell’età adulta fanno sì che i nati tra il 1983 e il 1995 si trovino ad affrontare situazioni molto diverse rispetto a quelle vissute dai loro genitori. Una conseguenza è l'aumento, da oltre dieci anni, di coloro che decidono di vivere da soli. «C'è stato un profondo cambiamento a livello sociale», spiega Roberta Rossi. «Fino a qualche anno fa, una donna che viveva da sola era considerata "zitella"; un uomo nella stessa situazione era uno "scapolo incallito". Oggi non è più così: vivere soli non significa essere soli».

Tra il 2001 e il 2016, secondo l'Istat, la quota delle cosiddette "famiglie senza nucleo" - quindi delle persone che vivono da sole - è passata dal 25% al 31,6% del totale.

Una crescita costante avvenuta nel corso di 15 anni, che ha visto le persone che abitano da sole passare da 5,4 a 8 milioni.

A prevalere, sia tra gli uomini che tra le donne, è la quota di celibi e nubili, teoricamente single per scelta, che sovrastano nettamente separati, divorziati e vedovi. A scegliere di vivere da sole sono soprattutto le donne sotto i 45 anni, che superano i loro coetanei di oltre un milione di unità.

Alla nuova figura del single bisogna guardare andando al di là degli stereotipi. «Sono persone che non hanno chissà quale tipo di vita sessuale», sottolinea Roberta Rossi. «Non sono alla ricerca disperata di sesso, non hanno interesse per rapporti che lasciano il tempo che trovano». Il cambiamento, quindi, è comportamentale: «I single di oggi», conclude Rossi, «vivono il sesso con l'impostazione del "lo faccio quando ne ho voglia", non dell'"ogni lasciata è persa"».

Il peso dei cambiamenti sociali, per i millennial, emerge soprattutto dalla necessità o dalla volontà di procrastinare alcune scelte. L'età media al matrimonio, per esempio, è aumentata costantemente dal 2004 a oggi, sia tra gli uomini che tra le donne. Se nel 2004 lo sposo e la sposa avevano in media rispettivamente 32,1 e 28,85 anni, nel 2016 la coppia-tipo era formata da un 35enne e da una 32enne (31,95 anni). L’aumento fa sì che tra i millennial vi siano sempre meno persone sposate, a conferma della tendenza già descritta.

Al di fuori dell'Italia, le tendenze sono le stesse. Un'indagine dell'Office for National Statistics britannico, per esempio, ha dimostrato che solo il 51% degli abitanti di Inghilterra e Galles dai 16 anni in su, nel 2015, era sposato: il minimo dal 2002. L'età media al momento del primo matrimonio nel Regno Unito, nel 1998, era di 28,9 anni per gli uomini e 27 per le donne; nel 2013, le cifre erano salite a 31,6 e 29,7 rispettivamente.

Negli Stati Uniti, la quota di persone che nel 2012 non erano mai state sposate era del 20%, contro il 9% del 1960. Nel 2014, secondo il General Social Survey, era sposato solo il 32% dei cittadini tra i 18 e i 34 anni. Nel 2000, alla stessa età, per la Generazione X la quota era del 40%.

La tendenza a sposarsi sempre più tardi nel mondo viene confermata anche dallo studio World Marriage Data delle Nazioni Unite.

Contraccettivi?
Sì, ma con moderazione

Costa troppo, è scomodo, e per alcuni riduce il piacere. Mentre si registra un calo del desiderio, in Italia sembra essere in crisi il preservativo. Secondo un'indagine della Federazione italiana di sessuologia scientifica (Fiss) del 2015, il 45,5% degli uomini intervistati non usa il preservativo durante i rapporti sessuali perché riduce il piacere. Il 9,5%, invece, si rifiuta di indossarlo perché ha paura di non mantenere l’erezione, mentre per l’1% il prodotto è troppo caro. Lo studio è stato svolto su un campione di 800 intervistati e le risposte sono state raccolte tramite la piattaforma surveymonkey da maggio a luglio 2015.

La stessa indagine pone l'accento sulla percezione del pericolo di contrarre malattie sessualmente trasmissibili. Tra gli uomini che non usano il preservativo, il 46,86% ha risposto di essere consapevole che, in mancanza di una protezione, la probabilità di contrarre malattie o infezioni è alta. Per il 28,5% il rischio è basso.

Le donne sono più consapevoli del pericolo. Il 52,43% crede che, non usando i contraccettivi, la probabilità di ammalarsi sia alta, mentre l'1,27% crede che il rischio sia irrilevante o addirittura inesistente.

L'aspetto della contraccezione, secondo Paola Zucchi, «è influenzato anche da parametri storici e sociali. Prima della pillola, la sessualità era sovrapposta alla procreazione; negli anni ’80, con la paura di contrarre l’Hiv, è comparso il profilattico. Oggi, due aspetti contribuiscono al mancato utilizzo dei contraccettivi: da un lato la sensazione di alterazione del piacere; dall’altro l’imbarazzo, soprattutto femminile, di chiedere al partner di utilizzare il profilattico. Un elemento che abbassa la percezione del pericolo e ha portato oggi a sottovalutare il rischio delle malattie sessualmente trasmissibili».

Risultati in linea con quelli dell'indagine Fiss emergono anche da uno studio della Fondazione Foresta Onlus condotto tra il 2015 e il 2016 su oltre 2.000 giovani. Il 40% degli intervistati dichiara di avere rapporti non protetti. Dati confermati anche dall’Associazione microbiologi e clinici italiani, che a dicembre 2015 ha riportato un incremento generale delle malattie sessualmente trasmissibili.

Nel 2017 Durex ha condotto il Global Sex Survey, indagine svolta in 36 paesi del mondo sulle abitudini sessuali di 29.735 adulti, tra cui 1.042 italiani. Dall'analisi risulta che una coppia su quattro, nel nostro Paese, ricorre al metodo del coito interrotto. Una tecnica rischiosa per chi non vuole avere figli, che non mette al riparo dalle malattie sessualmente trasmissibili.

La ricerca, inoltre, indaga sui pensieri che impediscono di vivere il rapporto sessuale con serenità e trasporto. Anche in questo caso sono comuni, tra gli intervistati, la paura di non mantenere l’erezione (32%) e quella di incappare in una gravidanza indesiderata: il 33% ha ammesso di usare il preservativo solo come metodo contraccettivo. È diffuso anche il timore di non dare piacere al proprio partner: 2 uomini su 3, ma solo 3 donne su 10, dichiarano di raggiungere sempre o quasi sempre l’orgasmo durante un rapporto sessuale. Timori che, secondo Roberta Rossi, derivano anche da «una mancata educazione alla sessualità e all’affettività. Molti ragazzi hanno rapporti sotto l’effetto di sostanze o utilizzano rimedi più o meno improvvisati per migliorare le loro prestazioni». In questo modo la visione della sessualità viene alterata. «Anche a scuola l’educazione sessuale non viene trattata nel modo corretto, la si affronta con un approccio troppo tecnico: avere una buona sessualità non significa saper utilizzare bene i contraccettivi».

Fra gli anticoncezionali preferiti, sempre secondo l’indagine Fiss, il 42,86% degli uomini preferisce la pillola, mentre il 39,17% il profilattico. Il 7% si affida a metodi naturali. Nel campione femminile, invece, vince il preservativo (44,94%). La pillola viene scelta dal 32,49%, mentre il 10% preferisce i metodi naturali.

I dati raccolti dall'indagine Fiss trovano conferma nel rapporto Coop 2017, che evidenzia un ridimensionamento delle vendite dei prodotti legati alla sfera sessuale: dai contraccettivi agli stimolanti, fino ai farmaci per le disfunzioni erettili. La spesa per i profilattici - si legge - è diminuita in un anno del 6% (-4,7% in termini di volume), così come è scesa quella per i contraccettivi ormonali sistemici, tra cui rientra la pillola anticoncezionale (-3,4% per la spesa, -4,2% per il volume). Cala anche l'acquisto di farmaci per le disfunzioni erettili (-0,5%). A fare da contraltare è l’aumento del 20% della spesa per i contraccettivi di emergenza, ossia le più note "pillole del giorno dopo" e "dei cinque giorni dopo". Sul dato ha inciso sicuramente anche il provvedimento, entrato in vigore a marzo 2016, che permette ai maggiorenni di acquistare questi farmaci senza obbligo di ricetta medica.

Una generazione rovinata dal porno?

La vita sessuale della generazione millennial è stata influenzata anche dalla disponibilità pressoché illimitata - per quantità e per tipologia - di pornografia. Nel 2017, gli utenti di Pornhub, il sito per adulti più cliccato al mondo (81 milioni di visite al giorno, 24,7 miliardi di ricerche in un anno, 120 milioni di voti ai video: più che alle presidenziali americane del 2016), hanno caricato filmati per una durata complessiva di 595.482 ore. Per vederli tutti occorrerebbero circa 68 anni. Le categorie in cui vengono catalogati i contenuti sono 95, incluse alcune incredibilmente specifiche ("Fumatrici", per esempio).

Lo stesso sito ha monitorato i suoi utenti e ha scoperto che il 60% è costituito da millennial, anche se la quota varia in modo significativo a seconda del paese: dal 48% del Giappone all'80% dell'India.

Occorre precisare che i dati di Pornhub si riferiscono a un solo sito e che non tengono in considerazione gli utenti che non dichiarano la loro età. Il General Social Survey 2016 conferma però che i millennial sono la generazione che consuma più pornografia. Il 46% di loro, secondo lo studio, ha visto almeno un video porno nei dodici mesi precedenti, contro il 29% della Generazione X e il 14% dei baby boomer (i nati tra la fine della Seconda guerra mondiale e i primi anni '60).

Anche questo dato va letto con alcune avvertenze: la definizione di pornografia non è univoca e, come spiega un rapporto Ipsos Mori, è probabile che, a seconda della generazione a cui appartengono, i soggetti intervistati siano più o meno «disposti ad ammettere la visione di pornografia».

Ma se è vero che, come conclude lo stesso studio, «è probabile che le generazioni più giovani consumino più porno», l'impatto della pratica sulla loro vita sessuale non è ancora chiaro.

La più vasta revisione sistematica sul tema è britannica. L'ha condotta e pubblicata nel 2017 l'Office of the Children's Commissioner of England, ente pubblico che protegge e promuove i diritti dei minori, che ha raccolto e confrontato oltre 40.000 studi accademici di vari paesi del mondo (alcuni - va precisato - hanno come campione i liceali, che non rientrano fra i millennial per la maggior parte delle definizioni). Il rapporto ha concluso, fra le altre cose, che «l'accesso e l'esposizione alla pornografia influenzano le opinioni di bambini e giovani sul sesso». Per esempio, i ragazzi che «percepiscono i contenuti sessualmente espliciti come simili al mondo reale» e «li ritengono utili» hanno più probabilità di tenere nei confronti del sesso un atteggiamento «superficiale ed edonistico», anziché «affettuoso e fondato sulle relazioni personali». Ancora, ha stabilito che «l'esposizione alla pornografia su internet è sia una potenziale causa, sia una conseguenza della visione delle donne come oggetti».

Lo studio segnala anche che «l'accesso e l'esposizione alla pornografia» aumentano le probabilità che i ragazzi tengano «comportamenti pericolosi» nella sfera sessuale, a partire dai rapporti non protetti.

Al tempo stesso, però, una delle ricerche esaminate dall'Office of the Children's Commissioner of England sembra indicare che «la fruizione frequente di pornografia su internet» è legata a «pensieri più frequenti relativi al sesso», «distrazioni più frequenti dovute al sesso» e «maggiore interesse nei confronti del sesso». In quest'ottica, la pornografia non sembra poter spiegare la diminuzione dei rapporti sessuali.

Soprattutto, come sintetizza ancora Ipsos Mori, «la conclusione più ampia della ricerca» è che molti aspetti restano «sconosciuti». Per esempio, quello degli eventuali effetti sulle aspettative che i giovani nutrono nei confronti del sesso: secondo Roberta Rossi, «l'unico vero rischio» del consumo di porno. «La pornografia dà un'immagine della sessualità che non è reale: tutto è amplificato», spiega la dottoressa. «Se chi la guarda ne è consapevole, e la vive dunque con spirito ludico, non ci sono pericoli. Il problema nasce se si pensa che il mondo virtuale debba corrispondere a quello reale. Da qui le paranoie sulle misure dei genitali, la vergogna per il proprio corpo, il voler arrivare all'orgasmo in una certa maniera, perfino la tendenza diffusa tra i giovani uomini ad assumere farmaci per migliorare la prestazione sessuale. O ancora, la pratica di avere rapporti sotto l'effetto di sostanze, in modo che tutto sia esaltato ed esasperato».

Dai possibili rischi legati alla mancanza di consapevolezza di fronte ai contenuti pornografici mettono in guardia anche gli addetti ai lavori. Stoya, attrice porno statunitense, sostiene che, se da un lato il porno ha permesso a molti di non sentirsi «strani» per via delle proprie fantasie sessuali, dall'altro la facilità di accesso «a qualsiasi cosa fa sì che talvolta le persone siano impreparate a capire ciò che vedono».

Negli ultimi anni, l'aumento della disponibilità e del consumo di pornografia ha provocato l'allarme della «pornodipendenza». Nel giugno del 2017, Michele Cucchi, psichiatra del Centro medico Sant'Agostino, ha spiegato alla trasmissione La gabbia di La7 che l'accesso illimitato al porno «produce assuefazione e una riduzione del valore dell'atto sessuale in una cornice sentimentale. Nei casi più gravi di abuso di pornografia, si può sviluppare quello che viene chiamato craving, la reazione fisica di chi fuma o ha dipendenza dall'alcol quando è lontano dalla sostanza: ipersudorazione, ansia, tensione fisica, irrequietezza».

«La prima discriminante per capire se si è di fronte a un caso di dipendenza può essere il tempo che si dedica al porno», aggiunge Paola Zucchi. «Bisogna capire quando diventa impossibile farne a meno, quando l'assuefazione crea la necessità di stimoli sempre più forti. Fino ai casi estremi di chi non vede gli amici o non va al lavoro per restare a casa a guardare porno».

Roberta Rossi ritiene però che il fenomeno riguardi solo in scarsa misura le generazioni più giovani. Le persone che sviluppano la pornodipendenza sono «introverse, con difficoltà a socializzare e insicure. Utilizzano la pornografia come alternativa al contatto diretto». I ragazzi «hanno di norma anche altre attività», mentre, per i meno giovani, «la pornografia è spesso uno strumento per sfogare frustrazioni, che rischia di diventare l'unico modo per trarre piacere».

«La generazione più gay di sempre»

Il 2 aprile 2016, il sito statunitense The Daily Beast titolava: «Millennials are the gayest generation» («I millennial sono la generazione più gay»). Un gioco di parole: l'espressione greatest generation viene utilizzata, dalla pubblicazione dell'omonimo libro del giornalista Tom Brokaw nel 1998, per alludere agli americani cresciuti durante la Grande Depressione, che combatterono la Seconda guerra mondiale. Ma anche un riassunto dei risultati di uno studio condotto dal Public Religion Research Institute: il 7% dei millennial statunitensi, definiti in questo caso come i cittadini tra i 18 e i 35 anni, si identificano come omosessuali, bisessuali o transgender.

La ricerca, in realtà, è stata condotta online e non è rigorosamente scientifica. Risultati simili arrivano però anche da un'analisi Ipsos Mori, che ha combinato i dati sugli Usa del General Social Survey 2014 e quelli sul Regno Unito dell'Annual Population Survey 2015 dell'Office of National Statistics. Secondo il rapporto Ipsos Mori, l'8% dei millennial statunitensi (18-34 anni) è omosessuale o bisessuale, contro il 5% della Generazione X e il 3% dei baby boomer. Differenza che si assottiglia, ma non si azzera, in Gran Bretagna, dove si dichiara "non eterosessuale" il 3% dei millennial, contro il 2% della Generazione X e l'1% dei baby boomer.

Le ricerche sull'identità sessuale sono state a lungo molto scarse, ed è dunque difficile fare confronti tra i giovani di oggi e quelli del passato. I dati sembrano però suggerire che i millennial siano in effetti «la generazione più gay». Conclusione coerente, peraltro, con le ricerche che attribuiscono loro opinioni politiche più progressiste rispetto alle fasce di popolazione più adulte.

Secondo Roberta Rossi, però, il clima di maggiore accettazione nei confronti degli omosessuali non trae origine soltanto da mutamenti ideologici: «Ci si è resi conto che gli omosessuali sono consumatori importanti e si cerca quindi di intercettarli. Non si tratta tanto di maggior rispetto per il diverso, quanto di finalità economiche». La società è arrivata cioè a «concepire l'omosessualità come un possibile orientamento sessuale». La vera accettazione «implica invece la condivisione, che ancora manca».