La musica senza strumenti

Yosonu tra dadaismo e body percussion: «Suono tutto»

Se lo invitate a prendere un caffè è probabile che trasformi la vostra cucina in un'orchestra dai mille strumenti che vi mostrerà l’inaspettata e inconfondibile anima dello scolapasta, oppure a guardare con occhi diversi l’orribile saliera regalata dalla zia e nascosta sull’ultima e meno visibile mensola. Così come dalla sua musica ha tolto gli strumenti convenzionali ma senza – in assoluto – rinunciare alla melodia, dal suo nome ha tolto tutto quello che non serviva per raccontare il suo progetto. «Avevo fatto una lista di nomi e mi piacevano davvero tutti ma poi mi chiedevo "Chi sono io? Cosa faccio" e istintivamente mi rispondevo in dialetto “io sonu, io sonu”. Per questo ho deciso di convertirlo in un unico nome Yosonu, che significa che io sono e io suono, faccio suonare il corpo, la voce, gli oggetti». Un progetto che si inserisce nel solco della body percussion, ma non si ferma lì. «In una certa misura sì. Quando faccio le mie composizioni utilizzo la body percussion, poi quando sento l’esigenza di un suono che il corpo difficilmente può esprimere, mi sposto sugli oggetti. E tuttora con molto stupore perché guardare gli oggetti, ad esempio un rotolo della carta, solo per la funzione per cui sono stati progettati, ti neghi molte possibilità creative. Al contrario, se lo dai lo stesso rotolo a un bambino, ci parlerà dentro, ci guarderà dentro, lo percuoterà, lo strofinerà per terra. Il mondo degli oggetti, come il mondo della voce, una volta che gli dai una funzione, perde una serie di possibilità creative, come del resto spiegavano a inizio Novecento i dadaisti. A me gli oggetti servono per una integrazione timbrica, anche se preferisco far suonare il corpo».

NIENTE STRUMENTI, NIENTE TESTI, MUSICA NUDA 

Come sei arrivato a definire questo modo di suonare? 

Per parecchi anni – e tuttora lo faccio – ho suonato con diverse formazioni di generi diametralmente opposti e mi piace suonare tutte le cose che suono, dal death metal al reggae, allo swing. A un certo punto però mi sono chiesto se non mi stessi perdendo, nel senso che sto al servizio del pezzo, compongo, suono, eseguo, ma il fatto di passare da una cosa all'altra mi stava facendo perdere di vista quello che sono io. Per questo ho sentito l’esigenza di fare qualcosa di solo mio e da solo. In quel momento ho deciso di dare forma alla sfida che avevo in testa da diversi anni e non avevo mai portato avanti per assenza di tempo: partire con un progetto artistico basato solo sulla musica del corpo, che poi ha conosciuto l’estensione che riguarda gli oggetti. 

Come nascono i tuoi pezzi? Come materialmente si concretizza il processo creativo? 

È divertente e assolutamente ridicolo. Generalmente sono a casa – perché io faccio tutto a casa, anche il disco è stato registrato nell’armadio di casa mia – parto da un pattern ritmico o da un giro di basso fatto con la voce. Mentre sto fischiettando, canticchiando, percuotendomi, se c’è una cosa che mi piace la registro e da lì comincio a costruire tutta l’orchestrazione. Anche quello avviene in modo esperienziale. Io non scrivo realmente nulla, incastro una serie di pattern ritmici e una serie di figure melodiche, fischiettate o con le diplofonie. È come un puzzle che si costruisce da solo. L’assenza di strumenti, di tasti, di corde, ti può portare dovunque. È solo una scelta legata al gusto. Si tratta di un processo però molto diverso da quello di una band, che jammando fa nascere delle cose. Lavorando da solo e lavorando per livelli – immagini magari di far suonare questa cosa con lo schiocco dei denti, quell’altra col torace, il resto con un barattolo, etc – sei quasi costretto a lavorare per step. Fai una cosa, la ascolti mentre si incastra con l’altra, poi prosegui. L’idea va concretizzata, limata.

MA QUINDI COME SI FA? 

Questo momento creativo complesso quanto è difficile riprodurlo live? 

È tosta. Dal vivo, ho deciso per scelta di non riprodurre i brani del disco. Ovviamente, qualcosa c'è, ma non ho una scaletta definita. Mi sono prefissato una serie di ambientazioni che voglio ricreare, ma il modo cambia di serata in serata. Se tu imbracci un basso, ad esempio, la tua memoria muscolare ti porta a eseguire questo o quel riff, se invece usi la voce o il corpo senza partiture da seguire, tutto è improvvisazione. Dal vivo, quando ho il sentore che ci sia il mood giusto per inserire qualcosa che ho già registrato su disco, lo inserisco, altrimenti proseguo con l’improvvisazione. Mi capita spesso anche di fare delle vere e proprie citazioni di brani rock, dai Black Sabbath, ai Metallica, ai Daft punk, perché dopo aver ascoltato musica per trent’anni, quando improvvisi viene naturale richiamare quello che hai interiorizzato. 

Quante volte dopo un live ti sei trovato davanti qualcuno che ti ha chiesto "come funziona"? 

Con questo progetto ho avuto la fortuna di incontrare delle persone molto curiose. Il fatto che tu stia solo ed esegua un vero e proprio concerto, per di più senza strumenti, lascia le persone interdette. Alcuni più che essere incuriositi da quello che ho fatto, non riescono a capire come l’ho fatto. Alcuni pensano ci siano delle basi, altri non riescono a capire come da un oggetto comune possa venir fuori un suono. I più curiosi sono quelli che cercano di capire dov’è il trucco, che comunque non c’è, quindi magari ti obbligano a fare una specie di prova del nove a fine serata. Altro è chi magari ha seguito i grandi sperimentatori, il jazz rock degli anni che furono. Io vengo da lì. Il piglio del progetto è elettronico perché a me piace renderlo contemporaneo, non voglio solo fare ricerca, perché spesso si corre il rischio che rimanga fra “gli esperti”. In questo modo invece io provo a portarla fra le persone, in maniera semplice. Faccio musica elettronica senza nessun software, senza nessun crisma della musica elettronica stessa.

DALL'ARMADIO ALLE PIAZZE 

Lo accennavi prima, queste sperimentazioni sono diventate un album. Dove ti ha portato e dove speri che ti porti GiùBOX? 

Mi ha portato dall’armadio di casa mia, dove l’ho fisicamente registrato, a un tour di cinquantasei date, divise in due parti. E questo tour mi ha portato in posti in cui mai avrei immaginato di suonare, ad esempio ai raduni di busking, insieme a trapezisti, pagliacci e ballerini fantastici, mi ha portato in locali e club di tutta l’Italia, il disco è arrivato in tante case. Vorrei che mi portasse a non smettere di sperimentare, a divertirmi ancora sul prossimo disco, che sarà molto diverso da Giùbox. Sono molto soddisfatto del lavoro che ho fatto con il primo, è un disco gioioso che probabilmente deriva dall’euforia di aver scoperto una nuova forma di fare musica, ma penso che il prossimo album sarà più oscuro, più dark, perché arrivo da quel mondo. 

Hai già qualcosa in cantiere? 

La "truffa" di questo progetto viene proprio da questo. Io registro tutti i live, quindi li riascolto a casa, segnando il minutaggio in cui c’è quella che considero una bella idea. Il prossimo disco sarà una selezione delle migliori idee venute fuori dal vivo, ma lavorate in studio.

SCHIZOFRENIA O AMORE? 

Nel frattempo continui a portare avanti una serie di altri progetti. Batterista con Memories of a Lost Soul e Marvanza e Via del Campo, cantante con tribute Led Zeppelin e un gruppo Glam glitteratissimo catanese. Dimentichiamo qualcosa? 

In realtà qualcos'altro c’è. Dunque la band in cui suono da più tempo sono i Memories of a Lost soul, band death metal progressive attiva dal 1995 e arrivata già al quinto disco. Con i Marvanza ci suono ormai solo ogni tanto. Con loro ho suonato regolarmente per tre anni, poi sono uscito dalla formazione per diversi motivi, ma siamo comunque molto amici quindi capita spesso che torni a suonare con loro. Diciamo che sono un sostituto. Suono anche nei Via del Campo, che è una delle formazioni con cui mi diletto a fare delle riletture di Fabrizio De Andrè, in chiave prog-rock, delle volte etnica. E poi canto in altre due band, gli Invisible Sound, con cui suoniamo pezzi dei Led Zeppelin, perché l’amore verso quel tipo di rock non se ne va, e gli Hotrod, che letteralmente vuol dire "la mazza calda", una glam rock band catanese in cui sono entrato da circa un anno e mezzo. Io non ho mai seguito molto gli anni Ottanta, ma le voci in quel decennio hanno fatto cose meravigliose. A me piace molto cantare e con i ragazzi degli Hotrod ci divertiamo a passare serate scanzonate, perché le tematiche della band sono molto molto leggere: le serate con gli amici, le donne, i motori. Nulla di impegnato, come da tradizione. Suono anche la batteria con Adriano Modica, che è una persona che mi ha aperto molto la testa su alcuni meccanismi della musica sperimentale, soprattutto dal punto di vista ritmico. In più c’è la band di body percussion del mio maestro, Ciro Paduano. Sono uno dei dodici bodypercussionisti. Le prove si fanno a Roma, loro si vedono ogni settimana, ma io riesco a esserci non più di una volta al mese. L’esibizione è molto massiccia, molto fisica, molto coreografica, perché attorno ci si costruisce un vero e proprio spettacolo. 

Tutte queste esperienze sono molto diverse, alcune addirittura agli antipodi. Da dove viene questa poliedricità? 

A me piace suonare, quando suono sono felice. Stare in così tanti contesti, non vuol dire variare solo il tipo di strumento che suoni, o il modo in cui lo suoni, ma anche il pubblico che incontri. Per questo a me piace suonare cose diverse, musiche diverse. Non c’è nulla che mi emozioni come la musica. Tutti i soldi che ho guadagnato nella mia vita – che non sono mai stati tantissimi – li ho spesi tutti in viaggi per andare a vedere i grandi concerti, i grandi festival. Non ho dieci batterie, dieci rullanti. Ho l’attrezzatura che mi serve per portare avanti il progetto di Yosonu e questo mi basta.

In Calabria è possibile vivere di musica? 

Io ci sto provando seriamente, anche se per me in questo momento non vuol dire vivere solo di concerti o di vendite. Io integro i concerti, la vendita dei dischi, all'attività didattica. Insegno batteria, insegno body percussion, faccio dei progetti di propedeutica musicale nelle scuole dell’infanzia. Quindi, in questo senso si può vivere di musica. Certo, vivere è quel sopravvivere che uguale per tutti i giovani della nostra generazione, siano essi architetti, ingegneri, cassieri di supermercato. È arrivare a domani. Vivere serenamente è una cosa che non appartiene a nessuna categoria lavorativa perché penso sia generazionale questo sentirsi in qualche modo preparati a non poter più pagare l’affitto da un giorno all’altro. 

Tu che da tempo hai avuto modo di esibirti con le varie formazioni in tutta la Calabria, sei in grado di dire se esista o meno una scena calabrese? 

Non sono molto affezionato al termine, perché parlare di una scena vuol dire continuamente mettere alla prova o sotto osservazione qualcosa che non va misurato. In Calabria esistono delle eccellenze – e parlo di artisti, di locali, di pubblico – a macchia di leopardo. Ci sono dei bei focolai di musicisti, di locali meravigliosi e di pubblico attento. Non ci manca nulla, tranne forse il lasciarsi trasportare.