Faccio suonare Borg e McEnroe

Le alchimie elettroniche di Indian Wells

di Alessia Candito

Per molto tempo, soprattutto all'inizio, quando nascondeva volto e identità dietro la copertina del suo primo disco e il logo del suo progetto, i più erano convinti che si nascondesse tra le infinite strade di Londra o in uno dei grattacieli di New York. In realtà Indian Wells, al secolo Pietro Iannuzzi, da quando ha lasciato San Donato di Ninea, paesino di mille anime arroccato sui monti del Pollino, non è andato più in là di Cosenza. Nella città dei Bruzi ha fatto l’università, ma la stanzetta da studente fuori sede è anche diventata lo studio laboratorio di uno dei progetti che più hanno catalizzato l’attenzione – non solo nazionale – nel mondo dell’elettronica. In poco tempo, il suo primo album Night Drops, pubblicato per Bad Panda Records, lo ha catapultato sui palchi europei e statunitensi, eppure – confessa - «Indian Wells è nato quasi per caso, nel giugno del 2011, dopo un precedente progetto di elettronica cui avevo dato vita nel 2009. È stato un momento di sperimentazione, sicuramente positivo, anche perché mi ha permesso di entrare in contatto con quella che poi è diventata la mia etichetta, Bad Panda Records». 

Come mai hai voluto dare al tuo progetto il nome di noti campi da tennis? 

«Il nome è preso in prestito da un torneo di tennis che si svolge negli Stati Uniti ogni anno e io sono, o almeno ero, un grande appassionato di questo sport, quindi ho cercato di unire le due cose. Quel primo disco era quasi tutto fatto con dei campioni presi da partite di tennis. Ad esempio, c’è un pezzo che si intitola Wimbledon 1980 che infatti è quasi tutto strutturato su dei suoni presi da quella partita, la finale fra Bjorn Borg e John McEnroe, che a detta di molti è una delle partite più belle della storia del tennis. In realtà però lo sport è un pretesto, una metafora per indicare tante altre cose. Il tennis è uno sport individuale, vince chi è più forte psicologicamente. Per me il tennista rappresenta l’uomo, perchè la lotta con se stessi è eterna ed è quello che ti rende felice oppure no. Anche il titolo dell’album Night Drops viene dal tennis, perché il drop è uno dei colpi tipici di quello sport».

RADICI COSENTINE, ORIZZONTI INTERNAZIONALI 

Night drops è un disco che ti ha catapultato abbastanza rapidamente da Cosenza ai palchi di mezza Europa… 

«Sì devo dire che è stato sorprendente. A pochi mesi dall'uscita se ne parlava ovunque. È una cosa che non avevo assolutamente preventivato. Il mio primo concerto in assoluto è stato in apertura a Gold Panda, che è un artista di calibro mondiale. È una cosa che ricordo quasi con terrore. Non avevo mai suonato dal vivo prima di allora e mi sono ritrovato di fronte cinquecento persone. È stato abbastanza traumatico, ma va bene così. Quel passaggio mi ha permesso di fare tante altre cose. Ho suonato a New York, a Londra. Direi che qualche soddisfazione me la sono levata». 

Qual è stata la scintilla che ti ha permesso di fare il "salto", di proiettarti subito in questo tipo di realtà? 

«La fortuna è un elemento fondamentale, ma non stiamo parlando della semplice botta di culo. Quella può capitare a tutti. Se non c’è sostanza dietro le cose che fai, si ferma tutto lì. La fortuna sta in tutta una serie di casualità, cercate e non, che mi hanno aiutato a raggiungere certi traguardi. C’è il lavoro che fa la mia etichetta, a mio parere una delle migliori in Italia dal punto di vista della qualità del lavoro che fa e della mentalità che ha. Di certo ha incuriosito il folclore tennistico dell’album, che era una cosa che non era stata mai fatta da nessuno. Magari ha contribuito anche il video, che ha fatto molto parlare di sé. Ci sono tutta una serie di elementi che si sono incastrati e hanno permesso all’album di farsi conoscere anche all’estero. Poi oggi con internet è anche più semplice che la tua musica vada al di là dei confini nazionali». 

A te è mai venuto in mente di trasferirti altrove? 

«Un sacco di volte, ovviamente. Ma ormai la mia vita è a Cosenza. Io qui lavoro, ho una casa, gli affetti, la famiglia, mi riesce difficile ormai, a trentatré anni pensare di spostarmi. Poi la vedo anche come una sfida. Fra i miei colleghi dell’università sono l’unico che è rimasto qui in Calabria, quasi tutti sono stati costretti a cercare fortuna altrove. Io ho avuto la fortuna di riuscire a crearmi una posizione qui fin quando le circostanze ancora me lo permettono».

STRADE, STANZE, STRUMENTI, L'ALCHIMIA DI INDIAN WELLS 

La realtà in cui vivi ha un riflesso nella tua musica? 

«Sì, credo che chiunque faccia arte o comunque ci provi, sia influenzato dal contesto in cui sta. Per altro, credo che la Calabria abbia un sacco di spunti a cui attingere per poi trasmettere delle emozioni, delle suggestioni. Una delle cose che facevo spesso quando stavo lavorando al mio primo disco era ascoltare le tracce, girando di notte in macchina nelle zone meno trafficate di Cosenza, magari anche quelle degradate. Anche quelle fanno parte del posto in cui vivi e influenzano le cose che fai. Personalmente, mi piace lasciarmi influenzare tanto dalle cose belle come dalle cose meno belle, ma che ti trasmettono delle sensazioni, dei ragionamenti e possono essere trasposte in musica, che del resto varia anche in base alla stanza in cui la componi. Può sembrare una cosa assurda da dire, ma mi sono accorto che anche l’arredamento della stanza influisce sul tipo di musica che fai». 

Ecco, nella pratica, come funziona il processo creativo per Indian Wells. Da cosa parti quando componi un brano?


«Non esiste un processo scritto o predeterminato, è sempre diverso. Posso partire da un suono o da un’idea che mi è venuta mente, quando sono in giro. È un processo molto istintivo. Mentre lavoro non so neanche io di preciso cosa stia andando a realizzare, me ne rendo conto solo a cosa fatte». Credi che la tecnologia impiegata determini la forma musicale finale, la scelta di determinate sonorità? «Sicuramente, anche in elettronica il suono cambia molto a seconda della strumentazione. Ormai la possibilità è ampia, esistono migliaia di attrezzature. Io non riesco quasi a starci più dietro. E meglio così perché altrimenti spenderei tutto quello che guadagno per comprare tutto quello che c’è in circolazione, ma in realtà scegli determinati suoni e poi continui a lavorare con quelli». 

Nel corso del tempo hai cambiato molto spesso tecnologia? 

«Ultimamente tantissimo. Soprattutto nel corso dell’ultimo anno e mezzo ho sperimentato tantissimo, ho cambiato diverse macchine. Anche per affrontare i concerti dal vivo comunque ho dovuto progressivamente ottimizzare la strumentazione. Magari qualcosa che utilizzo in studio live non funziona e viceversa. Tutto sta nel provare, fin quando uno strumento non lo senti tuo».

SUCCESSO INTERNAZIONALE E TREMARELLA DA LIVE 

A proposito dei live. Dicevi che il suonare davanti al pubblico è arrivato in un seconda fase del tuo percorso artistico. 

«Io non avevo mai suonato live prima che uscisse il disco e ti confesso che all'epoca non avevo neanche idea di come si potesse fare. Faccio musica da dieci anni, ma nella mia stanzetta, per i fatti miei, ma l’approccio "professionale" – con tutte le virgolette del caso – è arrivato solo da qualche anno. Non avevo la più pallida idea di come si facesse un set elettronico dal vivo. La prima esperienza è stata con Indian Wells». 

Che differenza c’è fra fare musica nella tua stanzetta e riprodurre quella stessa musica davanti a un indeterminato numero di persone? Che importanza ha la dimensione fisica della musica secondo te? 

«C’è una differenza enorme, anche perché non è che io abbia proprio un carattere estroverso. Sono piuttosto timido quindi le prime volte è stato difficile perché non sono abituato ai palchi. Mi creano sempre un po’ di difficoltà. Ultimamente magari meno perché con il tempo mi sono un po’ abituato, ma ogni volta che salgo sul palco un po’ di tremarella c’è sempre. Però è bello. Vedere gente che ti apprezza o capire dal confronto con il pubblico dove puoi migliorare è importante. È tutta esperienza». 

Dal vivo hai sperimentato anche alcune collaborazioni. 

«Abbiamo fatto un paio di date con i LaFine, un gruppo di Cosenza. Era una cosa che volevo fare da tempo per provare a rendere tutto musica vera, provare a dare percezione di quello che davvero è l’elettronica. Purtroppo questo genere è vittima di una serie di pregiudizi, che rendono difficile far capire tutto il lavoro che c’è dietro certa musica. Molti pensano che basti un computer, ma non è proprio così. Volevo mostrare concretamente come si originassero i suoni, ma ho avuto bisogno di una mano perché io non so suonare nessuno strumento, se mi metti una chitarra in mano non so che farci. È nata così la collaborazione con i LaFine. Non è stato semplice ma è stato bello. E poi una volta tanto non mi sono sentito solo lì sul palco...».

In questo periodo invece stai portando in giro il tuo ultimo disco, Pause. Chi ti viene ad ascoltare cosa deve aspettarsi di diverso rispetto a Night drops? 

«È cambiato un po' tutto, soprattutto nei suoni. Il primo disco subiva influenze che non erano necessariamente di elettronica da club. I suoni di Pause sono completamente diversi, ritmicamente il disco è un po’ più veloce. E questa è una tendenza che sto approfondendo, nonostante rimanga legato all’ambient. Quindi, qui e lì, viene comunque fuori un pezzo un po’ più riflessivo. In generale è un lavoro po’ meno oscuro come disco, ha un altro mood». 

Questo cambiamento di mood si deve a qualcosa in particolare? 

«Da "Night drops" in poi ho vissuto un periodo un po’ più sereno, tanto dal punto di vista della vita privata, tanto per le esperienze musicali che ho fatto. Mi sento più sicuro delle cose che faccio, meno paranoico, ho acquisito un po’ di consapevolezza. Questo ha fatto sì che i pezzi uscissero in maniera meno claustrofobica». 

Tu riesci a vivere della tua musica o fai anche un lavoro “normale”? 

«No, faccio un lavoro normalissimo. Ma per quello che ho potuto capire, anche confrontandomi con altri colleghi, vivere solo di musica è molto difficile, quanto meno in Italia. La musica non l’acquista più nessuno. O diventi il gruppo mainstream o difficilmente riesci a pagare con regolarità l’affitto. Fortunatamente ho un lavoro che mi lascia spazio per la musica e mi dedico a entrambe le cose».

PRIMAVERA ELETTRONICA A SUD? 

L'impossibilità di vivere di musica riguarda il mondo dell’elettronica o quello della musica in generale? 

«Credo riguardi il mondo della musica in generale. Paradossalmente, oggi l’elettronica sta vivendo un momento molto più favorevole rispetto al resto della musica. Certa musica rock o indie sta vivendo una certa crisi, mentre c’è sempre più gente interessata all’elettronica. Anche in Italia. E questa è una cosa anomala. Magari in certi contesti l’elettronica permette di vivere, ma si tratta di musica dance o comunque altri canali rispetto ai miei». 

Questa nuova "primavera" dell’elettronica sembra stia coinvolgendo in particolar modo il meridione. Al Sud ci sono ormai diversi artisti che si stanno facendo conoscere nel mondo dell’elettronica, come Jolly Mare o Populus. Secondo te si può parlare di scena elettronica del sud Italia o nell’era di internet non ha ancora senso delimitarla geograficamente? 

«Dobbiamo metterci d’accordo sul concetto di scena. Per come è comunemente intesa, non esiste una scena del sud Italia anche perché viviamo in posti diversi, non siamo cresciuti tutti nello stesso luogo, non abbiamo frequentato gli stessi locali, non abbiamo avuto la stessa formazione musicale, abbiamo personalità molto diverse. È vero però che ci sono delle connessioni. Andrea (Populus) è un grande amico, prima ancora ero un suo grande fan, stessa cosa con Jolly Mare. Ci conosciamo un po’ tutti. Personalmente ho anche un rapporto speciale con la Puglia, ci vado almeno due volte l’anno anche perché lì ci vive una mia grandissima amica, Matilde Davoli, che oltre ad essere una grandissima cantante e una grande artista è la mia ingegnera del suono. Per cui sì, esiste una piccola comunità in cui si collabora, ci si confronta».