Diamanti e cocaina

Gli interessi della 'ndrangheta in Africa

Il neocolonialismo delle mafie nel continente nero

REGGIO CALABRIA Mal d'Africa. Così si definisce comunemente quell’infinita nostalgia che "infetta" chi in tempi non sospetti ha visitato il “continente nero”, innamorandosi irrimediabilmente dei cieli infiniti, degli orizzonti bassi, della natura selvaggia ed esuberante che chiede e ottiene un ruolo da protagonista. Per molti che l’Africa l’hanno conosciuta solo sulle mappe a scuola, il continente è invece solo un posto oscuro e pericoloso, dilaniato da conflitti e piegato da fame e miseria, che spingono in tanti a rischiare tutto pur di trovare un’alternativa. E il più delle volte non trovano né braccia né Paesi pronti ad accoglierli. Ma c’è chi – e da tempo – guarda all’Africa come un’infinita risorsa, da sfruttare, da conquistare, da spogliare. Finita – almeno formalmente – l’epoca del colonialismo, durante la quale imperi, reami e nazioni hanno saccheggiato il continente tracciandone i confini a righello, nuovi e forse ancor più feroci colonizzatori hanno iniziato a fare shopping sopra e sotto l’Equatore. Sono le mafie, con le 'ndrine – tanto per cambiare – a giocare un ruolo da protagoniste. 

NEOCOLONIALISMO CRIMINALE Per Vincenzo Macrì, magistrato che ha scritto di suo pugno fra le pagine più importanti della lotta giudiziaria alla ‘ndrangheta in Calabria, le ‘ndrine sono arrivate in Africa almeno negli anni Ottanta. Già dagli anni Ottanta – dicono alcuni pentiti - i clan, reggini e no, avevano messo radici in Sudafrica, dove nell’epoca dell’apartheid hanno prosperato grazie a enormi liquidità da investire su cui nessuno ha fatto mai domande. E gli uomini delle ‘ndrine hanno messo radici a Johannesburg, Pretoria e Città del Capo. Hanno aperto locali, ristoranti, resort di lusso. Ma anche quando il regime di segregazione razziale è rimasto un lontano ricordo e il Sudafrica si è trasformato nel “Paese arcobaleno”, per la ‘ndrangheta non ha smesso di essere appetibile. Con la revoca delle sanzioni, per i clan è stato ancora più semplice acquistare grandi partite di diamanti da scambiare con container di cocaina. Ma l’estremo sud dell’Africa non è l’unico né il più importante territorio su cui le ‘ndrine abbiano messo le mani. 

I PORTI DEI CLAN Per la Dea, l’Africa occidentale sta diventando uno snodo strategico per il transito della cocaina spedita da Colombia, Bolivia, Venezuela, Ecuador, Perù e Brasile. Un dato confermato anche da inchieste come Igres, Decollo, Stupor Mundi – tutte coordinate dal procuratore aggiunto Nicola Gratteri della Dda di Reggio Calabria- che hanno svelato il ruolo che porti come quelli di Dakar (Senegal), Abidjan (Costa d'Avorio), Lomé (Togo), Cotonou (Benin), Tema e Takoradi (Ghana) e Port Harcourt (Nigeria) rivestono nel traffico internazionale di stupefacenti. È qui infatti che spesso la coca viene stoccata e il più delle volte divisa in carichi ridotti, poi smistati fra le diverse spedizioni dirette in Europa. In alcuni casi, invece, viene caricata su pescherecci o piccole navi dirette in Spagna, Portogallo o Gran Bretagna, dove viene immagazzinata e poi spedita in Italia e negli altri paesi europei a bordo di altre navi merci, di tir o di piccoli aerei. «Nel 2007 – spiega Gratteri nel suo “Malapianta” – i clan di Africo, quegli stessi che si sono infiltrati nell’Ortomercato di Milano, hanno cercato di importare 250 chili di cocaina con camper che, dal porto di Dakar, erano destinati a Parigi, in concomitanza con il famoso rally». A finire in manette saranno in venti, tutti a vario titolo legati al Morabito-Bruzzaniti-Palamara. 

I porti dei narcos: Dakar, Abidjan, Lomé, Cotonou, Tema, Takoradi e Port Hartcourt

ALLARMI INASCOLTATI Ma non si tratta di un caso isolato. Sempre il procuratore aggiunto della Dda reggina spiega: «Quello che un tempo era considerato un cuore di tenebra, dall’omonimo romanzo di Joseph Conrad, oggi è continente dove sempre più si concentra la presenza di importanti organizzazioni criminali». Stando a una delle ultime relazioni del Ros, i Mancuso di Limbadi e i Pesce di Rosarno da tempo avrebbero stabilito delle basi fisse in Togo. Anche per queste ragioni, nel lontano 2007, l’allora viceministro dell’Interno Marco Minniti aveva proposto al vicepresidente della Commissione europea dell’epoca, Franco Frattini, di lavorare per la creazione di una «piattaforma africana con esperti europei dislocati nel centro Africa» e «un’agenzia antidroga tra paesi del G6 e africani che come punto comune abbia l'attività nel Mediterraneo che consenta una efficace e moderna cooperazione». Una proposta rimasta lettera morta, mentre i peggiori timori sull’evoluzione criminale del “continente nero” sono diventati realtà. Per Gratteri, «oggi l’Africa rappresenta l’avamposto alternativo alla Spagna per il flusso di cocaina verso l’Europa. In Africa sono state realizzate piattaforme per il deposito e lo stoccaggio di stupefacenti. Spesso, come abbiamo avuto modo di ricordare, la cocaina sbarca su piste clandestine in paesi controllati da dittature militari che si finanziano con la corruzione. E da questi paesi del Centroafrica, la cocaina viene trasferita in Italia e altri paesi in Europa». 

LA DISCARICA DELLE 'NDRINE Ma se la droga arriva in Europa dai porti africani, la rotta inversa viene utilizzata per trasportare altro tipo di materiale. Nel 2005, il pentito Francesco Fonti aveva messo nelle mani della Dna un dettagliato memoriale sulle cosiddette navi dei veleni, carrette del mare usate per far sparire dall’Europa tonnellate di rifiuti tossici. Molte – spiegava il pentito – venivano affondate con il loro carico di morte, ma la maggior parte trasportava materiali tossici e radioattivi perché venissero smaltiti – o meglio accumulati – in Africa. Una pista che probabilmente è costata la vita all’inviata del Tg3 Ilaria Alpi e al suo cameraman Miran Hrovatin, trucidati in Somalia proprio mentre indagavano su un traffico di rifiuti tossici con base a Mogadiscio. Sulle stesse rotte dei rifiuti e spesso – dicono alcune indagini – come pagamento del “servizio smaltimento” reso viaggiano anche armi pesanti e da guerra. In altri casi, le armi servono a pagare materiali preziosi come il coltan, minerale fondamentale nei telefonini di ultima generazione, che abbonda nelle miniere congolesi, insieme all’uranio. 

TRAFFICO DI UOMINI Le ‘ndrine però non trafficano solo in materiali, ma anche in uomini. Stando a quanto filtra dalle procure, che ormai da tempo lavorano attivamente per comprendere quale sia la regia criminale che lucra sulla pelle di milioni di disperati, che fuggono da paesi devastati da guerre e carestie per cercare un destino migliore in Europa, le ‘ndrine giocano un ruolo di primo piano non solo nella gestione dei viaggi, ma anche in quella dei centri di permanenza e nello sfruttamento dei tanti costretti alla clandestinità. Un business doppio, triplo, per quegli stessi clan che da decenni ormai avvelenano l’Africa con rifiuti che nessuno vuole, spogliano il continente dei suoi beni più preziosi, armano le più spietate milizie e – talvolta – si offrono – a caro prezzo – come partnership per la ricostruzione.

«Stiamo parlando
con il re»

I sogni africani dei clan di 'ndrangheta 

Una terra da usare come porto, da depredare delle sue materie prime, da spogliare dei suoi giovani, da avvelenare con i rifiuti. Questa è stata per decenni l'Africa per le ‘ndrine. Ma c’è una nuova frontiera nel business criminale e diversi clan che fanno da pionieri, riciclando in nuovi territori uno dei business storici per i clan: il mattone. 

I SOGNI AFRICANI DEI CUTRESI Portano la firma del boss Nicolino Grande Aracri una serie di progetti edilizi che vanno dagli alloggi per i militari in Costa d'Avorio a megacomplessi in Ghana ed Algeria. Per gli investigatori, prima che arrivasse l’inchiesta Aemilia, i cutresi progettavano investimenti per centinaia di milioni di euro in Africa. Il loro braccio operativo, era la "Save group" insieme alla sua controllata "Save International", entrambe gestite da quello che viene considerato il braccio destro del boss, Alfonso Diletto, nipote di Rosario Grande Aracri, fratello del boss. Intercettato per mesi, proprio Diletto fornirà la conferma degli affari africani del clan. «Allora noi abbiamo Ghana, Costa d'Avorio», dice con soddisfazione il nipote del boss, fornendo involontariamente agli investigatori anche numeri e cifre degli affari in ballo. E sono da capogiro. Solo in Ghana si parla di «duecento o centocinquanta milioni di euro in Ghana», per un affare che i cutresi e i loro rappresentanti stanno trattando con le massime autorità del Paese. 

«Noi abbiamo Ghana e Costa D'Avorio», dice il nipote del boss Grande Aracri 

MI MANDA IL RE «Siamo andati a parlare con il Presidente ... omissis ... sì, stiamo parlando ... nui stiamo parlando ... (voci incomprensibili) ... omissis ... con il Re, con il Re, con tutti ... incompr . ... ci sono tutti», dice Diletto, rivelando quanto ampia e tentacolare sia divenuta la rete dei cutresi. E non solo in Ghana. Anche in Costa d'Avorio, dove sono costretti a scontrarsi con il colosso economico dei cinesi che da tempo usa il Paese come un supermarket, hanno trovato gli agganci giusti per sentirsi "protetti". A rivelarlo è sempre il nipote del boss, che illustra la strategia ai sodali: «Noi – dice senza essere sfiorato dal sospetto di essere intercettato - in Costa d'Avorio abbiamo 10 pretendenti ... allora cosa dobbiamo fare ... dobbiamo portare due stabilimenti..(..) dobbiamo fare due stabilimenti ... portare lì, per portare due stabilimenti servono 10 milioni». Anche se c’è la concorrenza cinese da gestire, Diletto sembra sereno e le sue parole – mette nero su bianco il gip – «non appaiono costituire frutto di millanteria». Ma i cutresi non sono l’unico clan ad aver messo gli occhi sull’Africa. 

I DE STEFANO E GLI AGGANCI IN TANZANIA Già qualche anno fa, a svelare interessi e relazioni che il clan De Stefano può vantare nel continente africano, era stata la destinazione finale della complessa triangolazione bancaria che aveva fatto finire in Tanzania i soldi sporchi della Lega Nord. Una manovra messa in atto dall’ex tesoriere Francesco Belsito e da imprenditori compiacenti, che per la Procura si era avvalsa dei canali di riciclaggio scavati da tempo dal clan di Archi. Ma per il pm Giuseppe Lombardo, che da tempo indaga sui rapporti fra il Carroccio e i De Stefano, ci potrebbe essere l’ombra degli arcoti anche dietro un altro affare. Estremamente remunerativo, per di più. A portarlo avanti – dicono le ipotesi investigative – sarebbero stati i coniugi Matacena, avvicendatisi nel curioso incarico di "consulente" per Tecnofin, con il supporto dell’ex ministro Claudio Scajola, che in qualità di ex responsabile delle Attività produttive del Paese avrebbe fornito loro nomi, contatti e reti con cui sviluppare affari. 

IL BUSINESS  DELLA RICOSTRUZIONE Affari importanti, come importante – e chiacchierata – è l'impresa per cui l'ex parlamentare di Forza Italia prima, Chiara Rizzo poi, sono stati incaricati di «rappresentare e gestire i rapporti con le istituzioni pubbliche, gli enti e le aziende private (...) per lo sviluppo e la realizzazione di impianti di produzione di strutture abitative prefabbricate secondo le indicazioni fornite dalla società», ricevendo in cambio come compenso per ogni accordo realizzato, «il 2% di ogni società che sarà intestataria o proprietaria dei citati impianti produttivi oggetto del contratto di consulenza professionale. Inoltre l'accordo prevedeva un ulteriore compenso forfettario di 200.000 euro annui successivamente alla contrattualizzazione della prima fabbrica», più un rimborso spese. Una signora retribuzione, «fatturabile – è scritto nei contratti rinvenuti durante la perquisizione a casa della segretaria di Matacena, Maria Grazia Fiordelisi – anche ad una società appositamente indicata», che ai coniugi veniva regolarmente erogata dalla Tecnofin. Un gruppo dai trascorsi chiacchierati, se è vero che tra i soci figurano gli immobiliaristi Gabriele Sabatini, coinvolto nell'affaire della Cascinazza di Monza (indagati anche Paolo Romani e lo stesso Paolo Berlusconi) e nella storia della presunta tangente al leghista Davide Boni, ex presidente del consiglio regionale lombardo, e Massimo Dal Lago, fratello di Alberto, ex amministratore delegato della Torno, immobiliare fallita dopo essere uscita malconcia dalla bufera Tangentopoli. Insieme nella Tecnofin, finiranno al centro di un nuovo affare relativo alla realizzazione di due maxi-commesse per la costruzione di new town prefabbricate in Russia. Commesse che tramite Matacena e la Rizzo, o meglio i loro buoni uffici, i caporioni della Tecnofin avrebbero sperato di ramazzare anche in Cina, Brasile, Libia, Iraq, India, ma soprattutto Etiopia e Nigeria.

Il business della disperazione

L'ombra dei clan dietro il traffico di uomini 

Centinaia di sbarchi organizzati secondo piani precisi e copioni ormai conosciuti. Rodate navi madre che seguono rotte definite fino al limitare delle acque internazionali, per poi abbandonare alla deriva vecchie carrette piene di disperati alla ricerca di un futuro migliore. Un fiume ininterrotto di persone che – quale che sia la stagione – sfidano il Mediterraneo per sfuggire al caos geopolitico mediorientale, alla guerra, alla fame, alla povertà. Una tragedia di dimensioni epocali, ma secondo le Nazioni Unite la filiera della tratta nel Mediterraneo è per fatturato la seconda occasione di business dopo il narcotraffico. Un affare troppo grande perché le 'ndrine non ci mettessero le mani. Nonostante allo stato non esista ancora un’inchiesta che abbia dimostrato il ruolo della ‘ndrangheta nella gestione dell’enorme numero di sbarchi che ha interessato le coste della Calabria, da tempo l’ipotesi è al centro di diversi approfondimenti di inquirenti e investigatori. Del resto, le rotte del Mediterraneo non sono una novità per le ‘ndrine. Esplorato già dagli anni Settanta per il traffico di hashish e oppio, testato nel tempo per quello sempre fertile di armi e sfruttato – si ipotizza – per quello di rifiuti tossici e no, il Mare Nostrum è diventato piazza di un altro mercato, forse più ricco e potenzialmente inesauribile di quelli già sperimentati: quello di esseri umani. A confermarlo – al netto della riservatezza dovuta alle indagini in corso – è il pm Giuseppe Lombardo, uno dei magistrati che per primi alla Dda di Reggio Calabria, ha messo in relazione i consolidati legami delle ‘ndrine reggine con organizzazioni che dominano sulla sponda sud del Mediterraneo con il boom degli sbarchi sulle coste calabresi registrato negli ultimi anni. 

C’è l’ombra delle ‘ndrine dietro il traffico di uomini che ha portato a centinaia di sbarchi sulle nostre coste? 

«La ‘ndrangheta è una enorme holding mondiale, un'agenzia di servizi. Per gestire qualsiasi cosa a livello mondiale si può quindi ricorrere a due strade: o si cerca l’interlocutore, oppure ci si rivolge a quell’organizzazione che è in grado, di volta in volta, di fornire l’interlocuzione necessaria. In questo senso, è possibile affermare che anche il traffico di migranti è verosimilmente gestito a livello unitario da associazioni criminali che hanno una struttura ramificata, collaudata e, soprattutto sovranazionale». 

Quali elementi vi hanno portato a ipotizzare questo nuovo ramo d’affari per i clan? 

«Noi osserviamo i fenomeni con occhi particolarmente allenati. E partiamo sempre da considerazioni apparentemente banali, che ci consentono di individuare subito le cosiddette criticità investigative. La domanda di fondo, anche in tema di traffico di migranti è semplice: come è possibile gestire un enorme numero di persone, che creano un evidente problema alla Nazione che li riceve, senza il coinvolgimento delle organizzazioni criminali che controllano le attività criminali che riguardano i territori nei quali si verificano gli sbarchi? Tali premesse consentono di impostare le attività di indagine che servono a trovare le risposte processuali più corrette». 

I clan come sono approdati a questo business? 

«In un momento storico come questo in cui il mercato globale soffre la mancanza di liquidità legale, le mafie, soprattutto quelle che riescono ad amministrare enormi capitali liquidi, sono diventate gli interlocutori necessari nel sistema economico mondiale. Questo dato è particolarmente inquietante: avendo la disponibilità di enormi capitali pronti da investire, sono gli unici che riescono a garantire il raggiungimento degli indispensabili equilibri economici. L’organizzazione criminale oggi non si propone più, ma viene individuata quale interlocutore per poter dare risposte che, solo dopo, vengono occultate nel ventre dell’ economia legale». 

Quanto ha contato l’esperienza accumulata nel campo del narcotraffico per sviluppare i contatti che hanno aperto alla ‘ndrangheta questo nuovo canale? 

«Tutti i narcos parlano con la ‘ndrangheta. Alcune famiglie del versante jonico gestiscono direttamente questo tipo di contatti, ma sempre collegate al contesto criminale di provenienza: sanno che da quelle relazioni deriva la forza che l’organizzazione può manifestare e garantire. In altri territori, invece, hanno fatto scelte diverse: le grandi famiglie reggine sono le più inserite a livello istituzionale e politico, hanno coltivato negli anni una serie di rapporti con vari apparati, movimenti extraparlamentari, l’eversione di destra, la massoneria».

Cosa ha significato nello specifico? 

«Le grandi famiglie reggine hanno creato delle opportunità di contatto anche con gli stati esteri, dove veniva collocata la gran parte della ricchezza accumulata, hanno avviato contatti anche in ambito finanziario per superare gli schemi tradizionali di riciclaggio. Mentre gli altri capi erano ancora convinti che la via migliore fosse quella di coltivare piccoli territori, le cosche di Reggio Calabria avevano già capito che gli strumenti finanziari si stavano dematerializzando. Amministravano non solo le ricchezze della Lombardia, del Piemonte e di tutto il centro-nord, ma anche le potenzialità collegate ai contatti romani, alla Svizzera e all’Europa, specialmente in quegli Stati in cui vigevano sistemi normativi particolarmente vantaggiosi parificabili a paradisi fiscali, come la Francia meridionale, dove esiste una locale di ‘ndrangheta da circa quarant’anni. La Spagna, invece, rappresentava per le famiglie un ponte verso i paesi del nord Africa. Hanno utilizzato le coste che si affacciavano sull’Oceano e i sistemi di origine anglosassone che rendevano più difficili le operazioni di accertamento patrimoniale, ma hanno anche sfruttato il bacino del Mediterraneo per nuovi affari come il traffico di migranti». 

«Hanno sfruttato il bacino del Mediterraneo per nuovi affari come il traffico di migranti»

Qualora potesse rivelarlo, è possibile immaginare che i contatti istituzionali delle famiglie reggine abbiano in qualche misura contribuito all’apertura e alla gestione di questo canale?

«Posso solo immaginare che la ‘ndrangheta non sia diventata "la multinazionale del crimine per eccellenza" per la sua particolare arretratezza, il suo isolamento culturale e la sua incapacità di guardare oltre le logiche localistiche. Posso immaginare che il suo capitale sociale sia costituito da ben altra materia, ma per il lavoro che faccio ho il dovere di dimostrarlo in sede processuale».

                                        servizi di Alessia Candito (a.candito@corrierecal.it)